I vent’anni della Principessa Mononoke
Traducción de Annamaria Martinolli
Il presente saggio breve è stato pubblicato il 12 luglio 2017 sul portale online dedicato alla diffusione della cultura giapponese CoolJapan.es. L’autore è Antonio Míguez Santa Cruz, professore collaboratore onorario dell’Università di Cordova. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli. Il copyright appartiene a CoolJapan.es.
Introduzione
Nel 1993 lo Studio Ghibli era già considerato uno dei migliori laboratori di animazione tradizionale. Pellicole di successo come Una tomba per le lucciole (Hotaru no Haka, 1988) e Porco rosso (Kurenai no Buta, 1992) fecero sì che in Asia raggiungesse quasi lo stesso livello di notorietà dell’onnipotente casa di produzione Disney. Di fronte a risultati di tale livello, Toshio Suzuki, produttore dello studio, decise di compiere un ulteriore passo avanti e rafforzare questa posizione nell’ambiente dell’animazione con un’opera maestra e indimenticabile che proiettasse lo Studio Ghibli sul panorama internazionale e lo identificasse con un modo concreto di fare cinema. Per raggiungere un simile obiettivo avrebbe chiesto aiuto all’alma mater dello Studio, il Maestro Miyazaki, anche se i loro punti di vista sul tipo di progetto da realizzare erano molto distinti.
Hayao Miyazaki aveva da tempo in mente un progetto intitolato Kemushi no Boro (Il bruco Boro) in cui si narravano le avventure e disavventure di un piccolo bruco. Al contrario, Toshio Suzuki pensava a qualcosa di molto più ambizioso ed epico, perché credeva fosse arrivato il momento di approfittare dei guadagni incassati con le ultime pellicole realizzate. Il produttore, molto attratto dall’idea di intraprendere un progetto su un film d’epoca, suggerì la possibilità di recuperare alcuni schizzi, raccolti in un taccuino, disegnati dallo stesso Miyazaki e intitolati Mononoke no Hime. La storia narrata nel bozzetto parlava di un samurai che dopo la disfatta del suo esercito decide di rifugiarsi nella cavità di un albero. Con sua sorpresa, il suddetto albero è la casa di uno spirito-gatto che decide di farlo suo prigioniero per aver invaso la sua abitazione. Di fronte a una simile prospettiva, il samurai offre la sua terza figlia in sposa in cambio della libertà e il gatto accetta contento.
Malgrado l’originalità, l’idea era stata scartata perché ritenuta troppo antiquata, anche se molti suoi tratti caratteristici sarebbero in seguito stati utilizzati in altre pellicole. È esattamente ciò che accadde con La principessa Mononoke per la quale la produzione definitiva dello Studio Ghibli mantenne non solo il titolo del bozzetto ma anche i nomi di alcuni dei personaggi, anche se la storia fu radicalmente modificata.
Benché non si disponga di dati irrefutabili in merito, l’azione della versione definitiva sarebbe collocata agli inizi del periodo Muromachi (XIV secolo), anche se l’ambientazione jidaigeki convive in modo proficuo con il fantastico. La storia è incentrata su Ashitaka, principe di un villaggio di emishi, che, nel tentativo di difendere la sua terra da un cinghiale/demone, resta vittima di una maledizione. Dopo la sconfitta della bestia, la matriarca del villaggio attribuisce il male del gigantesco mostro a un pezzo di ferro rinvenuto nelle sue viscere. Costretto ad affrontare il proprio destino, il giovane eroe intraprende un viaggio verso ovest per trovare una cura al suo stigma. Trascorse alcune settimane, Ashitaka conosce San, una ragazza selvaggia che convive con tre lupi giganti in lotta perenne con la Città del Ferro a causa del fatto che gli umani distruggono la montagna e gli spiriti del bosco cercano di difenderla. Il principe emishi cerca di convincere sia la Principessa Mononoke che Lady Eboshi, a capo dell’enclave industriale, che la convivenza e la pace sono l’unica soluzione possibile. La posizione di entrambe le fazioni, però, è estremista e lo scontro diventa imminente.
La pellicola uscì nelle sale giapponesi il 12 giugno 1997 incassando più del suo gran rivale di quell’anno, Titanic di James Cameron, e superando addirittura i guadagni del film che fino a quel momento era stato considerato il maggior successo nella storia delle isole del Giappone, E.T. di Steven Spielberg.
La principessa Mononoke: argomenti di discussione
Partendo da queste basi, approfitteremmo dell’occasione del ventesimo anniversario della pellicola per analizzare alcune tematiche in essa affrontate.
Animali
Nella maggior parte dei casi, gli animali di Mononoke no Hime rispettano un simbolismo totalmente orientale. Ad esempio, l’apparizione di bestie parlanti andrebbe attribuita all’empatia che Hayao Miyazaki nutre nei confronti di ogni essere vivente. Se lo shintoismo ritiene che gli animali abbiano un’anima esattamente come gli esseri umani, e il buddismo afferma che ogni forma di vita merita di essere venerata in quanto facente parte del ciclo del Samsara, perché un lupo non dovrebbe essere in grado di esprimersi come gli altri esseri sensibili? È questo il motivo per cui nell’ukiyo-e gli animali vengono spesso rappresentati vestiti come gli esseri umani e intenti a svolgere attività inconsuete. È importante sottolineare la differenza che intercorre con l’utilizzo, nelle strip comiche americane, di animaletti umanizzati che invece sono dei semplici espedienti esilaranti che si rifanno al dadaismo burlesque e ottengono successo nel mostrare un topo che assume atteggiamenti tipici di un essere umano.
Quanto sopra affermato assume un valore ancora più importante nel caso delle grandi bestie come Moro, la lupa gigante. In questo caso, chiunque conosca a livello elementare la lingua giapponese non avrà difficoltà a stabilire una relazione tra le parole lupo e Grande Dio, visto che sono omofone anche se i loro caratteri sono distinti: Ōkami ( 狼) significa lupo, mentre Ōkami (大神) significa Grande Dio o Dio degli Dei. La spiegazione è più o meno semplice: la parola kami può significare dio o spirito. In giapponese esistono diverse formule di rispetto quando si desidera sottolineare l’onorabilità di un concetto. Poiché esistono moltissimi kami, un giapponese non si rivolgerebbe mai allo stesso modo a un dio minore e a un dio importante. In quest’ultimo caso, il processo di sottomissione avviene collocando una Ō- proprio davanti alla parola che si desidera porre in risalto – kami – , e di conseguenza la parola corretta per rivolgersi a un Grande Dio è Ōkami. Secondo lo shintoismo la Grande Dea per eccellenza è Amaterasu, quindi non è assurdo pensare che Miyazaki abbia creato un rapporto tra Moro, una lupa, e la dea più importante del Pantheon giapponese. Tutto quanto dichiarato in questo contesto ricopre una sua importanza in quanto l’animale gigante muore per una ferita causata da un proiettile. In senso figurato, bisogna sottolineare che le nuove usanze della vita giapponese stanno progressivamente eliminando i segni identitari tradizionali. La metafora è talmente forte da utilizzare un’arma da fuoco, il primo strumento occidentale adottato in Giappone, come mezzo per disfarsi di un avatar di Amaterasu, la dea che giustifica la divinità della Casa Imperiale. Non credo che, a questi livelli, il dettaglio possa passare inosservato.
Rispetto al viandante notturno, Amaterasu era una dea latrice di vita, collegata alla luna. Nella mitologia nipponica, Tsukuyomi, suo fratello, è appunto il dio della luna resosi responsabile della morte della dea del cibo, Uke Mochi, che aveva fatto apparire una serie di pietanze in modo da lui ritenuto disgustoso. Lo spirito del bosco, in compenso, alla luce del giorno assume le sembianze di un Grande Cervo, animale che ricopre uno speciale significato nell’ambito della cultura giapponese in quanto già nel 1637 iniziò a essere considerato divino. Se ci riallacciamo alla cultura indoeuropea, notiamo che entrambi i concetti confluiscono in divinità quali Cernunnos, dio cervo fecondatore della terra, e da questo si evince che Miyazaki sembra creare interessanti connessioni riguardo al significato mistico del cervide. Un simile cliché non è estraneo agli artisti che si sono succeduti nel corso della storia, anche se il Cervo astato di Kim Myeongbeom, opera contemporanea dall’evidente significato ecologista che sembra ricordare lo spirito del bosco della Principessa Mononoke, è particolarmente suggestivo. La decapitazione, da parte di Lady Eboshi, di questo guardiano primordiale, rappresenta il pericolo che corre l’umanità nel trascurare la Terra, poiché è proprio il pianeta a fornirci il sostentamento e a darci la vita.
Malgrado questo sostrato orientale nella raffigurazione delle fiere, esistono anche influenze molto evidenti provenienti dalla mitologia classica. La più esplicita è probabilmente l’utilizzo di cinghiali giganti nel ruolo di difensori della natura, strategia già riportata da Ovidio nelle Metamorfosi e da Pausania nella Periegesi della Grecia nello sconosciuto passaggio riguardante l’uccisione del cinghiale di Calidone (o calidonio). Appartenente al genere mostri ctoni, la storia narra del re Eneo che un certo anno si dimenticò di onorare Artemisia con le sue offerte. Di fronte a un simile comportamento, la dea inviò da Calidone un gigantesco cinghiale antropofago poiché desiderava punire l’offesa radendo al suolo la città del re greco. Nella pellicola di Miyazaki, sia il disboscamento degli alberi che l’estrazione del ferro, alla pari dell’insulto alla dea degli animali e dei boschi in Ovidio, rappresentano un affronto alla natura stessa. In entrambi i casi, l’araldo castigatore è un cinghiale, simbolo della fertilità della terra e della brutalità degli elementi.
Non possiamo concludere questo capitolo dedicato agli animali senza citare Yakul, l’alce rosso del principe Ashitaka. Anche se il fedele compagno del protagonista non possiede caratteristiche magiche o fantastiche, svolge un ruolo trascendentale atto a concludere la raffigurazione del simbolismo animale dello Studio Ghibli. I suoi tratti non legati alla finzione fungono da elemento che avvalora l’ambientalismo magico, visto che Yakul è un animale addomesticato dagli uomini. Ciononostante, il personaggio si distingue per la sua nobiltà, e non esita a restare sempre fedele al suo padrone malgrado le circostanze avverse. Per Hayao Miyazaki gli animali non hanno bisogno di parlare per dimostrare quanto sono straordinari, e nel caso specifico del nostro alce possiedono anche un’etica che li rende simili ai personaggi umani o agli dei del bosco. Questa connotazione così alta deriva dallo schema filosofico buddista che afferma che tutte le creature fanno parte del processo dinamico che confluisce nella conoscenza razionale.
L’eroe
Fin dalla nascita della mitologia, le società cercarono di creare dei referenti di idealità che il tempo e la prospettiva avrebbero definito eroi. A seconda dello stadio evolutivo del popolo in questione, i canoni da seguire erano di diversa tipologia. Ad esempio, quando Eracle si erse a mito, lo fece in un mondo mediterraneo quasi preistorico dove i valori da rispettare erano, soprattutto, la forza e l’attitudine alla guerra. Con il passare dei secoli, e già quando i greci iniziarono a organizzarsi in città-stato, si resero necessarie altre caratteristiche, più adatte a chi viveva in una civiltà più sviluppata: l’oratoria, la demagogia, l’eloquenza, tutti questi tratti di notevole importanza per le classi dominanti li avrebbe posseduti Odisseo, un eroe che accantonava la forza fisica e abbracciava l’intelletto come principio primordiale.
La figura dell’eroe è fondamentale in qualsiasi racconto epico, e La Principessa Mononoke indubbiamente lo è. Tuttavia, il protagonista non è il classico supereroe; infatti, benché possegga forza, tenacia e coraggio, le caratteristiche che lo elevano al di sopra degli altri sono quelle di tipo morale. In una struttura che prevede il confronto tra due estremi, Ashitaka agisce da mediatore: è l’unico personaggio a credere in una possibile convivenza tra uomo e ambiente. Da un lato, egli è umano e quindi comprende le necessità delle persone per migliorare il loro livello di vita, dall’altro, però, difende il fatto che non si possa raggiungere un simile obiettivo distruggendo l’equilibrio naturale. Una simile posizione, imparziale entro certi limiti, acquisisce ulteriore valore quando si pensa che Ashitaka è vittima della maledizione di Nago e che questo è diretta conseguenza di un comportamento umano spinto all’eccesso. Ne consegue che se la società che creò l’Ercole delle dodici fatiche cercava un esempio di forza e determinazione, e se Omero erse Ulisse a simbolo di ciò a cui bisognerebbe aspirare, Hayao Miyazaki concepisce un eroe proporzionato al Giappone attuale: una persona in grado di rispettare la tradizione e la natura ma tollerante anche nei confronti dello sviluppo proprio di ogni cultura elevata.
In quanto alla struttura delle avventure del giovane emishi, si rilevano modifiche sostanziali rispetto all’epica formale. Secondo il mitografo Joseph Campbell esiste un modello narrativo ricorrente in quello che egli definisce il viaggio dell’eroe, osservabile, malgrado le diversificazioni culturali, nella maggior parte delle civiltà storiche. Ora confronteremo, tappa dopo tappa, il percorso del nostro protagonista con il prototipo stabilito dallo studioso statunitense.
Il mondo ordinario: Una delle due tappe comuni a tutti gli eroi della Storia, poiché le narrazioni sono solite iniziare in un ambito domestico o familiare. In questo caso specifico il mondo ordinario è un villaggio emishi di cui Ashitaka è principe ereditario. Collocato a nordest di Honshu, rappresenta una delle ultime zone delle isole del Giappone non soggette a influenze tecniche. È interessante notare come Miyazaki utilizzi un villaggio giapponese etnicamente eccentrico come modello di società ideale.
La chiamata all’avventura: L’arrivo di Nago al villaggio e la ferita che provoca ad Ashitaka determinano l’inizio del viaggio. La direzione dello stesso, da est a ovest, ricopre un significato specifico nella cultura asiatica poiché, secondo l’epica cinese, Sun Wukong, il re scimmia, viaggiò verso occidente per recuperare alcuni sutra smarriti in India. Questo spostamento va ben oltre il semplice viaggio fisico, e se sia Ashitaka che Wukong arriveranno in territori a loro sconosciuti, il viaggio li porterà anche a un’elevazione dell’anima.
Reticenza dell’eroe o rifiuto della chiamata: La determinazione di Ashitaka nell’affrontare la sua nuova situazione non segue il classico luogo comune. Infatti, nella Principessa Mononoke non è contemplato alcun rifiuto della chiamata. La scena in cui il principe viene informato di dover abbandonare il villaggio e, in seguito a questa notizia, si taglia la coda è chiarificatrice. Per alcune classi dell’antica società giapponese, la pettinatura era il simbolo della propria posizione sociale. Tagliarsi i capelli implicava un’alterazione destinata a durare a lungo. Con il suo gesto, Ashitaka rinuncia al suo essere principe e inizia una nuova tappa, anche se non esistono notizie certe che comprovino che un simile rito fosse storicamente diffuso tra i villaggi autoctoni del nord.
L’incontro con il mentore o l’aiuto soprannaturale: Il principe emishi non riceve alcun addestramento, come invece accade a Luke Skywalker con Yoda, ma in compenso ottiene una forza innaturale a causa della maledizione di Nago. Il fatto che l’utilizzo di questa abilità comporti un’ulteriore diffusione del maleficio vuole essere un monito sulle conseguenze di una tecnicizzazione esasperata: grazie a essa possiamo raggiungere mete impensabili, ma questo potrebbe implicare il dover ipotecare il nostro futuro. Va detto che questo potere di Ashitaka si scatena solo contro gli esseri umani, e mai contro gli animali del bosco.
Il varco della soglia: Qui l’eroe oltrepassa la linea che separa il piano abituale dal piano singolare. Dal nostro punto di vista, nella Principessa Mononoke ci sono due punti di svolta. Il primo è rappresentato dallo scontro di Ashitaka con i samurai di Asano, ed è il momento in cui il protagonista entra in contatto con la civiltà. Il secondo corrisponde alla conversazione tra il giovane e Jiko nel tempio diroccato. Qui Miyazaki inserisce un piano statico di fronte a una lanterna spenta. La luce che spezza l’oscurità riveste molteplici significati spirituali, e quindi sarebbe un modo per informarci che stiamo entrando nel mondo della magia. Il fatto che la lanterna sia spenta rappresenterebbe invece il declino di quest’universo.
Alleati e nemici: L’ambiguità morale nei personaggi di Miyazaki fa sì che questa voce si perda nella soggettività. Ne riparleremo tra poco.
L’avvicinamento all’obiettivo: Nell’epica formale rappresenterebbe il superamento di diverse complicazioni di minore importanza. Tuttavia, nella Principessa Mononoke si evolve in modo tale da comportare sempre problemi di estrema difficoltà.
La prova finale: Il cavaliere contro il drago nei romanzi cavallereschi. In questo caso, la prova finale è costituita dalla ricerca della testa del grande spirito del bosco. Va sottolineato che questa fase non rappresenta un face to face che coinvolge solo Ashitaka, ma tutti i personaggi della storia, in un modo o nell’altro, ne vengono coinvolti. Assieme alla tappa del mondo ordinario è quella che si ripete in ogni avventura.
La via del ritorno: In questo caso, Hayao Miyazaki non elabora una storia circolare in cui l’eroe ritorna nuovamente al punto di partenza. Quando lo spirito del bosco muore, Ashitaka si libera dalla maledizione e decide di aiutare gli abitanti della città restando con loro. Questa fase comporta molte differenze che allontanano il finale della Principessa Mononoke da quella che viene normalmente considerata una chiusura standard. Vedesi, ad esempio, l’assenza del classico happy-end o di un’ipotetica relazione sentimentale tra San e Ashitaka. Soluzione che, del resto, sarebbe stata la strada più facile da percorrere.
L’ambiguità morale
Secondo l’unilaterale schema cattolico, il bene e il male sono concetti opposti che si escludono reciprocamente. Così abbiamo sempre il personaggio buono, modello di virtù e difensore delle giuste cause. Al contrario, il cattivo è cattivissimo perché sì, anche se a volte il suo atteggiamento viene giustificato da qualche episodio traumatico. Questa tendenza è molto diffusa nel cinema classico e ancora oggi la si può rimarcare con facilità. Tuttavia, per la cultura buddista, questo modo di classificare la morale è semplicistico e insoddisfacente, poiché essa ritiene che qualsiasi persona possa essere buona o cattiva nelle varie fasi della propria vita. Per il buddismo, il bene e il male non sono concetti assoluti, ma soggettivi e relazionali.
D’altra parte, e benché l’impatto sulla cultura giapponese sia più limitato, sono inevitabili le influenze del taoismo e del suo principio di dualità Yin Yang. Secondo questo pensiero, due forze complementari uniformano la totalità della materia, e dall’ipotetico disequilibrio di esse nasce ogni cambiamento o movimento. Il simbolo dello Yin e dello Yang mostra una disposizione simmetrica con una parte chiara e una scura. Tuttavia, tale simmetria non è statica, ma piuttosto rotazionale; il che evoca un continuo movimento ciclico. I due punti presenti nel simbolo rappresentano il concetto in base al quale quando una tendenza arriva al suo estremo incarna, in senso figurato, il seme dell’opposto. Gli animali simbolo di queste pulsioni sono la Tigre e il Dragone, poiché uno rappresenta il lato attivo, istintivo e temperamentale, e l’altro il lato passivo, razionale ed eloquente. È importante comprendere che nessuna delle due tendenze è migliore dell’altra, anche se nella maggior parte dei casi la tigre è l’elemento da sorvegliare. Per la nostra cultura, una manifestazione Yang in un certo ambito può portare al processo di un individuo; nella cultura orientale si dà per scontata l’esistenza di tale possibilità. Per controllare la stabilità di entrambe le forze esiste il Taoismo, una filosofia di vita meditativa e di indole intellettuale.
Questo dualismo così diffuso in Asia è ben osservabile nei personaggi della Principessa Mononoke. Perfino Ashitaka, l’unico a possedere un allineamento morale chiaramente definito, uccide diversi uomini nel corso del film, anche se per legittima difesa. Se analizziamo il comportamento di Jiko o di Lady Eboshi ci rendiamo conto che non sono poi così vili come sembrano; Eboshi, malgrado la sua crudeltà e fatuità, salva le donne dei postriboli e offre loro un lavoro, per non parlare delle cure speciali che riserva ai lebbrosi. Jiko, in compenso, è un attaccabrighe interessato, difetto accentuato dal suo essere monaco, però si dimostra conciliante e aiuta il protagonista durante il loro primo incontro. Se ci spostiamo verso i buoni “presunti”, ovvero la Principessa Mononoke e le grandi bestie del bosco, il problema continua a essere evidente. San è un essere palesemente consumato dalla rabbia, il male per eccellenza per una religione che cerca quale scopo esattamente il contrario. Ai due grandi cinghiali – Nago e Okoto – succede la stessa cosa, salvo il fatto che essi sono letteralmente consumati dall’odio che li trasforma in demoni. Infine, Moro e i suoi figli uccidono sistematicamente gli umani per la loro natura, però hanno allevato San, una bambina, come se appartenesse alla loro famiglia.
I samurai e le donne
Anche se la figura del samurai svolge un ruolo secondario all’interno della narrazione, riteniamo interessante il modo in cui viene rappresentato. Come visto nel paragrafo precedente, la quasi totalità dei personaggi presenti nella pellicola assumono comportamenti ambigui; questo, però, non succede agli uomini di Lord Asano, saccheggiatori e assassini, militari senza valore che addirittura attaccano la Città del Ferro quando è sguarnita. Chiunque abbia svolto una ricerca, anche superficiale, nella letteratura o cinematografia giapponese si accorgerà che una simile visione è molto lontana dal concetto di samurai. È paradigmatico, in questo senso, il caso di Akira Kurosawa e dei suoi Sette samurai (Shichinin no Samurai, 1954) dove sette guerrieri aiutano con altruismo un villaggio taglieggiato dai banditi. Ma allora, nel caso di Hayao Miyazaki, dove sono finiti l’onorabilità e i precetti del Bushido?
Storicamente, i samurai furono personaggi crudeli. E non avrebbe potuto essere altrimenti visto che erano il risultato di una società conflittuale e pericolosa dove il guerriero poteva morire in qualsiasi istante. La grandezza del samurai fu un’altra: quella per cui attraverso l’addestramento e la meditazione si convertì nel frutto di un complesso amalgama filosofico e religioso. Detto altrimenti, i bushi sono unici nel panorama storico perché nessun guerriero in nessun’altra società si caricò sulle spalle una simile metafisica esistenziale. Ma come si è detto, questo non implicava che fossero modelli comportamentali; sistematici maltrattamenti alle donne, massicce epurazioni in castelli già distrutti, crudeli torture ai cristiani od omicidi commessi per ragioni talmente futili come provare la lama di una spada, furono praticamente all’ordine del giorno nei periodi Muromachi e Tokugawa. Hayao Miyazaki non nasconde mai questo aspetto perverso, che anzi risulta ancora più evidente se entra in gioco il significato critico della pellicola. Non si tratta solo della proiezione sociale della donna, o della presa di coscienza ecologica che traspira da ogni piano, ma della revisione realista di uno dei simboli per eccellenza del Giappone; il che fa di Miyazaki un critico che va ben oltre il patriottismo per scandagliare aspetti quantomeno scabrosi.
Tornando alla donna giapponese, non sempre le è stato riservato un ruolo marginale nel corso della storia. Esistono testimonianze di tendenze matriarcali nella primordiale società isolana, e ci sono anche alcuni documenti cinesi che attestano l’esistenza di una principessa pseudo-mitica chiamata Himeko. La sofisticatezza e l’estetica cortigiana dei periodi Nara e Heain collocarono la donna in una posizione attiva, o se non altro molto più attiva rispetto alle tappe successive, quando il militarismo ostacolò la femminilità con uno stigma che sarebbe durato otto secoli.
Miyazaki è cresciuto facendosi strada in un Giappone costruito a misura del liberalismo americano, e si è dimostrato molto sensibile nei confronti di questo maltrattamento storico di cui abbiamo appena parlato. Forse è questa la ragione che lo ha indotto a riservare un trattamento speciale alle donne nell’ambito del suo cinema. Nausicaa, Nicky o Chihiro sono eroine forti e indipendenti, vitali e risolute, dotate di capacità emozionali e di buon cuore. In qualche modo, il regista dello Studio Ghibli si pone l’obiettivo di mostrare al resto della società giapponese le vere possibilità della donna e l’importanza che ha ricoperto nell’evoluzione del suo popolo.
Nel film che stiamo analizzando il vero protagonista è un ragazzo. Tuttavia, questo non significa che, nel corso della narrazione, le donne non acquisiscano un certo peso; anzi, si direbbe che ciò avvenga anche in misura sproporzionata. Così abbiamo San, presente anche nel titolo, o la anziana del villaggio emishi, capo di un popolo che tradizionalmente è di tipo patriarcale. Ben lungi dal cadere nella negligenza storica, il regista giapponese è consapevole che una situazione di questo tipo non è mai esistita, eppure persevera nell’idea di mostrare donne preminenti allo scopo di esprimere qualcosa. Con Lady Eboshi a capo della Città del Ferro esiste anche l’avarizia, l’invidia, l’egoismo e, soprattutto, la capacità di rettifica, valori che, indipendentemente dal genere, sono comuni a tutte le persone. In questo modo, Hayao Miyazaki non prospetta un’ipotetica società matriarcale che migliora quella esistente, ma sottolinea le somiglianze presenti in entrambi i sistemi. L’uomo e la donna sono uguali, creature fallibili e imperfette, e questo fa sì che l’enorme supremazia dell’uno sull’altra sia totalmente ingiustificata.
La malattia e la morte
La putrefazione, la malattia e l’estinzione della vita sono temi centrali nell’opera del regista. Nel caso della Principessa Mononoke questi concetti non solo incombono sui diversi personaggi ma anche sulla stessa cosmogonia in cui essi pullulano. Per esempio, il male che colpisce Ashitaka deriva dal contatto con la sporcizia rappresentata da Nago, un essere iracondo, vinto dal risentimento causato dall’odio nei confronti dei devastatori della sua terra. In questo senso è importante ricordare la scena del cinghiale agonizzante che grugnisce in lingua umana il seguente maleficio: creature spregevoli, presto conoscerete la mia ira e soffrirete come me.
L’origine del maleficio di cui è vittima il principe emishi va ricercata nel profondo sincretismo religioso della cultura giapponese. Quando nel buddismo un essere è piegato dai suoi più bassi istinti, viene considerato un malato dell’anima, l’unica essenza da proteggere poiché tutto il resto è transitorio. A queste anime viene inflitto un castigo temporaneo in uno dei diversi inferni buddisti, ovvero la trasformazione in un demonio divoratore definito preta. L’oggetto che questo essere demoniaco deve divorare è sempre collegato con la trasgressione da lui commessa in vita. Lo scrittore Lafcadio Hearn, ad esempio, raccontò di come un ladro di cadaveri si trasformò in preta e fu quindi costretto a nutrirsi della carne dei morti per sopravvivere. Il peccato di Nago è l’odio estremo, ragion per cui si è trasformato in un demonio distruttore di tutto ciò che gli era più caro: la natura stessa.
Fin dal primo fotogramma risulta evidente che Nago, il cinghiale gigante, è un araldo della morte; infatti, al suo passaggio, quello che un tempo era un dio del bosco si lascia dietro solo la desolazione della vegetazione morta. Nemmeno una situazione di questo tipo è casuale. La morte e la degenerazione sono termini quasi tabù per lo shintoismo, una religione attiva avente ben poca o nessuna implicazione con l’aldilà. Per questo, la pulizia rituale e il rinnovamento simbolico sono trascendentali nel suo corpus, e lo si può notare nei bagni tagi e misogi o nel periodico smantellamento e ricostruzione del santuario di Ise. Questa liturgia si pone l’obiettivo di dimostrare la freschezza e la piena disposizione a entrare in contatto con gli dei. Di fatto, anche nella pellicola, in diverse occasioni, si osserva come Ashitaka allevia il dolore al braccio immergendolo nell’acqua.
Infine, la morte del grande spirito del bosco si ricollega direttamente a questo sistema di credenze. Quando il corpo del gigante, nella sua caduta, crea un soffio d’aria capace di infondere la vita, si sta suggerendo la possibilità che il gigante torni a risorgere. Un’idea di questo tipo è suggerita anche dall’apparizione, nell’ultima immagine, di un kodama. A questo punto è importante sottolineare che il dio del bosco è morto pulito, dopo aver recuperato la sua testa, e non ridotto a un marasma di immondizie come Nago e Okoto che erano stati condizionati dall’ira e dall’odio.
I vent’anni della Principessa Mononoke
Nel corso del presente saggio abbiamo visto quanto possa essere complesso un film d’animazione. Il cinema, che per necessità evoca le inquietudini di un popolo, in Giappone ha subito trasformazioni tali da sviluppare alcune caratteristiche cristallizzatesi ulteriormente in generi diversi dai quali La Principessa Mononoke deriva direttamente. Questo fenomeno si sviluppò in seguito alla destrutturazione dell’Impero giapponese, all’esplosione della bomba atomica e alla scomoda presenza, durata sette anni, degli statunitensi in Giappone. Fu così che iniziarono a diffondersi pellicole incentrate su mostri giganteschi, film che affrontavano il problema nucleare, o racconti su enormi robot destinati a diventare le icone di una società che si è tecnologizzata a una velocità vertiginosa.
In risposta a queste finzioni fredde e scoraggianti si colloca non solo la ricchissima produzione dello Studio Ghibli, ma anche tutta la serie di titoli a tematica simile che continuano a uscire nelle sale. L’elenco comprende pellicole anomale come Un’estate con Coo (Kappa no Coo to Natsu Yasumi, 2007) o The Great Yokai War (Yôkai Daisensô, 2005) e veri e propri gioielli quali Mushishi (2005) e Wolf Children – Ami e Yuki i bambini lupo (Ôkami Kodomo no Ame to Yuki, 2012).
Risulta evidente che Hayao Miyazaki e Isao Takahata hanno impresso i loro nomi a caratteri dorati nell’ambito del panorama cinematografico grazie a pellicole bellissime di per se stesse, ma hanno anche indirizzato i loro sforzi verso il rafforzamento dei valori tradizionali della società che li ha visti nascere. Di conseguenza, se il disegnatore giapponese si vergogna del comportamento del suo esercito nel Pacifico durante la Seconda guerra mondiale, decide di metterlo in evidenza nella sua penultima pellicola, Si alza il vento (Kaze Tachinu, 2013); se la donna giapponese è vittima di una delle società più repressive della Storia, Miyazaki le offre nel suo universo quel ruolo da protagonista che si merita da sempre; se la maggior parte degli autori giapponesi tende a dimostrarsi eccessivamente nazionalista, il regista si ispira all’occidente per elaborare buona parte delle proprie opere. E se il Giappone sta dimenticando quanto il rispetto verso le piante e gli animali sia fondamentale per le religioni nazionali, se l’eccesso e la spersonalizzazione si ergono a luogo comune sempre più diffuso nel Giappone attuale, ecco La Principessa Mononoke, opera d’arte confezionata da un genio e, per coloro che sono disposti a immergersi in essa, autentico protocollo di sensibilità e valori che non ha eguali nella Storia del cinema universale.