Il linguaggio di Boris Vian
Traducción de Annamaria Martinolli
Il presente saggio è tratto dal volume La Nouvelle Revue Critique, No. 175, aprile 1966. L’autrice è Marie-Christine Loriot. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli. Il copyright appartiene alla Nouvelle Revue Critique.
Un mondo dove tutto e nulla è finto, dove le anguille risalgono il lavandino per andare ad assaporare il dentifricio, dove i topi sono gli amici e i confidenti dell’uomo, dove gli oggetti, che vivono di vita propria, prendono l’iniziativa, come il campanello che si stacca dal muro per avvertire Colin dell’arrivo di Chick; un gioco non solo di parole ma anche d’idee: tutto quanto scritto da Boris Vian suscita immediatamente un fascino innegabile.
Poi, la seduzione lascia quasi subito spazio a una sorta d’inquietudine, se non addirittura d’angoscia: al racconto, e alla sua veste immaginaria e allo stesso tempo autentica, si sostituisce un mondo reale con la sua logica interna, un mondo deprimente, affascinante nella sua stranezza e ideato unicamente dal linguaggio.
Quest’ultimo, in effetti, è all’origine dell’opera stessa, dell’universo, dei personaggi che in esso si evolvono, degli incidenti e dei semplici episodi. Ecco perché porsi l’obiettivo di analizzare meticolosamente, in poche righe, il linguaggio di Boris Vian sarebbe presuntuoso. L’unica possibilità è quindi evocarne i principali meccanismi e tracciarne una descrizione a grandi linee.
I procedimenti utilizzati dall’autore sono molteplici.
Innanzitutto, Boris Vian fa ampio ricorso al neologismo. I processi di formazione, il valore e il significato stesso di queste parole nuove sono diversi: alcune di esse sono inventate di sana pianta e non si riferiscono ad alcuna realtà linguistica preesistente. Questo vale, ad esempio, per il biglemoi e il doublezon, la cui formazione non rispetta alcuna regola razionale ma obbedisce alla sola fantasia dell’autore. Molto spesso, la radice stessa della parola non ricopre alcun significato reale e non ha nemmeno un equivalente linguistico.
In altri casi, le parole sono una sorta di semi-neologismi, ottenuti attraverso la combinazione di due elementi linguistici diversi. Alcuni di essi sono costituiti da un semantema comunemente attestato e da un suffisso di ampio utilizzo grammaticale. Per citare solo alcuni esempi, il suffisso –drome va ad aggiungersi al tema député e al tema baiser per dare vita a députodrome e baisodrome. In altri casi, come quello di libérationnement e pianocktail, il semi-neologismo nasce dalla combinazione della sillaba finale del primo costituente con l’iniziale del secondo; la parola nuova nasce quindi dalla fusione di due parole di uso comune abitualmente utilizzate singolarmente. Da questa alleanza linguistica bizzarra scaturisce l’effetto sorpresa desiderato, sorpresa che riguarda non solo il linguaggio ma anche, e attraverso di esso, la realtà presentata.
Dal punto di vista semantico i neologismi, indipendentemente da come si formano, assumono valori diversi: alcuni designano una realtà esistente tra gli oggetti o i personaggi del mondo circostante (il doublezon, ad esempio, è solo una moneta, che non comporta né privilegi né inconvenienti superiori a quelli di un franco, un dollaro o un marco. In questo caso, si tratta di un semplice gioco apparentemente gratuito, di un divertimento dell’autore); altri, invece, di primo acchito, costituiscono non solo un’innovazione linguistica ma sono una novità anche per il mondo reale: il biglemoi è un ballo che solo i protagonisti de La schiuma dei giorni hanno avuto modo di danzare. In questo caso specifico, vale la pena sottolineare come la formazione della parola, e quindi anche della nuova realtà, comporti una progettazione sorprendentemente precisa: questa nuova tecnica di ballo, fino ad oggi sconosciuta, è oggetto di una descrizione minuziosa che ricorda, in ogni suo passaggio, le spiegazioni fornite da un professore emerito.
Già da questo si nota fino a che punto Boris Vian, a partire dal linguaggio, ricostruisca un mondo fantastico, in una certa misura immaginario, dove però tutto è logicamente collegato senza che il ragionamento abbia mai a risentirne.
Esiste anche un terzo tipo di neologismi, nati dalla combinazione di due parole, che mettono in contatto due realtà diverse: il libérationnement, ad esempio, crea tra i due elementi un nuovo rapporto che suggerisce una nuova visione delle cose. In questo caso, l’autore non dà vita a un universo nuovo ma fa passare quello vecchio attraverso il prisma del suo linguaggio e gli conferisce un valore spesso critico ma sempre ironico. Nell’esempio qui riportato, la libération e il rationnement sono due fenomeni contemporanei, relativamente indipendenti, che quantomeno assai di rado si trovano ad essere legati così stretti. Solo questa modalità di presentare i due elementi come una parola unica, in cui essi fanno confluire avvenimenti originariamente paralleli, dà vita a un nuovo punto di vista e crea, tra di essi, un rapporto temporale, causale e storico che spesso suggerisce la critica e l’ironia evocati in precedenza.
La quarta categoria di neologismi non ha, invece, alcun valore preciso o determinato, ma evoca una virtualità che il lettore o lo spettatore deve completare con la sua arguzia, la sua sensibilità e la sua specifica personalità. L’esempio tipico è rappresentato dallo Schmürtz de I costruttori d’Imperi. Si è molto dibattuto sul significato e sul valore dello Schmürtz. Anche se la parola è di suono germanico, in tedesco non esiste assolutamente e costituisce un neologismo totale. Si è pensato fosse il simbolo della malattia che minava lo stesso Boris Vian, o la rappresentazione della decadenza sociale, o, in senso più ampio, della condizione umana, o ancora l’allusione allo stato di guerra. Come asserito da Raymond Queneau, tutte le interpretazioni sono possibili poiché Boris Vian non cercava di definire, con questa parola, una realtà ben precisa. Il ruolo del neologismo appare qui in tutta la sua chiarezza. Nessuna parola della lingua comune avrebbe potuto generare questa ambiguità, fonte dell’atmosfera dell’intera pièce e dell’angoscia che progressivamente si sprigiona a mano a mano che la famiglia si inerpica per i piani della dimora e sprofonda nel decadimento, nella miseria, nel terrore, nella disperazione.
Anche in questo caso la parola, il linguaggio, sono i soli e unici creatori dell’opera e, probabilmente, a un livello più alto rispetto agli altri esempi citati in precedenza. È il linguaggio stesso a essere il motore del dramma. È grazie a lui che tutto accade, senza di lui tutto è finto. Sarebbe sbagliato ritenere che solo la o le realtà che lo compongono hanno un valore drammatico. Sono proprio l’indeterminatezza che lo avvolge e la mancanza di definizione linguistica a generare il fenomeno teatrale. In questo contesto, siamo molto lontani dallo scherzo e dal divertimento gratuito che, secondo molti critici, stanno alla base dell’opera di Boris Vian.
Tuttavia, è attraverso il gioco verbale che l’autore, a volte, s’ingegna a deformare le parole, e lo fa anche per ironizzare sulle realtà presentate: le chuiche al posto di le suisse, le bedon anziché le bedeau, la sacristoche invece di la sacristie, sono degli esempi lampanti di questo tipo di procedimento, visti e considerati anche i frequenti attacchi che l’autore rivolge alla chiesa. Questo modo di farsi beffe del linguaggio si traspone immediatamente nella vita reale, acquisendo tutto il suo valore simbolico.
Anche il fenomeno della desiglazione rientra in questo ambito umoristico. Esso si manifesta attraverso una critica all’incresciosa abitudine della nostra società diventata incapace di citare in extenso il nome di un’associazione, di un organismo o di un partito. Boris Vian parla quindi di téessef, invece di TSF, opponendo alla convenzione ortografica la trascrizione fonetica. Questo metodo è stato utilizzato da molti autori moderni, in particolare da Queneau.
Il sovvertimento delle rigide regole linguistiche che ci vengono imposte dalla società, e che non corrispondono in alcun modo alle nostre aspirazioni, attraverso la creazione di parole interamente o parzialmente nuove che danno vita anche a una nuova realtà e che non si limitano al puro e semplice neologismo, caratterizza ogni livello del linguaggio di Vian.
Gli stessi processi formali, gli stessi valori, gli stessi obiettivi si ritrovano nei gruppi di parole e, andando oltre, anche nelle frasi e nei paragrafi. Si tratta, sostanzialmente, di un’associazione di parole, di un’associazione di preposizioni e di “un’associazione di frasi”.
Nel passaggio dal puro e semplice gioco di parole ai collegamenti in grado di creare una nuova rete di rapporti si apre una vasta gamma di possibilità non solo linguistiche ma anche semantiche. Si riportano qui di seguito alcuni esempi che illustrano tale affermazione. In La schiuma dei giorni al portiere capita di dondolarsi “su una sedia a dondolo meccanica il cui motore scoppietta a ritmo di polka”; capita che “una voce cavernosa si faccia sentire in tutti gli altoparlanti tranne uno, dissidente, che invece continua a trasmettere musica”; capita che, quando Colin corre a raggiungere Chloé malata “l’angolo acuto dell’orizzonte, stretto tra le case, si precipiti verso di lui”. Si potrebbero citare molti altri esempi di questo tipo, non solo nelle forme letterarie dell’opera di Boris Vian ma anche nelle canzoni da lui composte. Vedesi ad esempio La complainte du progrès (les arts ménagers) in cui si parla di “sgabello del ghiaccio” e “sparapatate” che evocano l’accumulo degli attrezzi da cucina e l’insieme confuso che può risultarne nella mente umana.
Negli esempi citati nei paragrafi precedenti, i procedimenti linguistici sono i medesimi. Boris Vian collega a una parola inclusa in un insieme significante specifico un altro insieme semantico dove compare quella stessa parola, e che costituisce il collegamento tra i due elementi, che riveste, in ognuno dei casi, un significato leggermente diverso. Riprendendo così, con una sfumatura lessicale distinta, la parola introdotta nel suo significato normale all’inizio della frase o del paragrafo, Vian fa prendere un’altra piega alle realtà conosciute o nuove da lui evocate ma non al linguaggio che continua a mantenere la sua logica implacabile. Da qui nasce un mondo strano, surreale, a volte fiabesco, che è poi quello in cui si muovono gli esseri di Vian.
Il fatto che Isis offra “dei pasticcini da tè su un vassoio” non è niente di sorprendente, ma che si tratti di un “vassoio ercinico” lo è molto di più. “La nuvoletta non li aveva seguiti” è una semplice nota a margine, ma che “aveva preso la scorciatoia e li aspettava già all’altra estremità” è indubbiamente un evento originale.
In questo contesto, è opportuno citare un fattore costante nell’opera dell’autore, abitualmente designato con il termine, alquanto inesatto, di antropomorfismo. Questo fenomeno corrisponde a una tendenza fondamentale del linguaggio di Vian di cui non si è ancora parlato; molto spesso, e di esempi di questo tipo se ne contano a centinaia, si genera una discrepanza tra il soggetto e l’azione evocata; vi è un continuo passaggio da un regno all’altro: minerale, vegetale, animale, umano. Tanto per citare alcuni esempi, nei suoi testi si incontrano: tappeti che si puliscono strofinandoli con il sale, vetri rotti che ricrescono e campanelli che si staccano dal muro per avvertire i personaggi dell’arrivo di un amico. La parola chiama la parola stessa indipendentemente dalla realtà chiamata in causa.
La frase sulla nuvola citata in precedenza, se applicata a un essere umano, non genererebbe lo stesso effetto sorpresa poiché prendere una scorciatoia è qualcosa di normalissimo. Ciò che non lo è affatto è la coscienza determinata della nuvola a non volersi lasciar andare in balìa del vento. Questa priorità del linguaggio sul pensiero trasmette spesso agli oggetti delle virtù umane.
Boris Vian, in effetti, rifiuta di farsi imprigionare nella fissità del linguaggio. Nella sua intera opera, non esiste un solo passaggio in cui un’espressione riservata a un essere animato non sia applicata anche a quello inanimato, come non esiste uno stile linguistico corrispondente a un preciso modo di pensare. In un certo senso, l’autore processa il linguaggio battezzando una lingua nuova dove la parola è regina e prima creatrice. Ecco perché il mondo stesso nasce o rinasce a partire da essa.
La discrepanza si fa ancora più evidente quando Boris Vian passa dal senso proprio al senso figurato o viceversa: Chick cerca faticosamente di annodarsi la cravatta, “gli occhi gli caddero sulla sua opera e la cravatta si richiuse brutalmente, schiacciandogli l’indice…”. L’espressione “gli occhi gli caddero…” è la tipica frase fatta il cui senso ha finito per sfuggirci tante sono le volte che l’abbiamo detta. Vian restituisce all’espressione tutta la sua forza, tutta la sua vitalità, tutta la sua potenza immaginifica, e lo fa interpretando letteralmente il verbo nel suo significato concreto e liberandolo da qualsiasi allusione astratta, come avviene nel linguaggio corrente. Tutta la poesia della frase è insita nel significato del verbo “cadere”.
E proprio di poesia si tratta; di quella stessa poesia che Baudelaire definiva “magia suggestiva, stregoneria evocatrice”. In Boris Vian esiste una certa magia della parola che costituisce l’essenza stessa di quel linguaggio che noi chiamiamo poetico.
In linea generale, Boris Vian rifiuta a priori qualsiasi forma stilistica, qualsiasi figura retorica preesistente, qualsiasi espressione cosiddetta letteraria. Egli utilizza il linguaggio non come mezzo espressivo ma come una realtà che precede il pensiero e l’essere. La successione delle parole e delle frasi precede la logica del mondo, a volte in contraddizione con quella del linguaggio. Quest’ultimo viene interpretato nel suo significato letterale. Ecco perché Vian utilizza assai di rado il senso figurato delle parole: gli occhi di Chick cadono il più materialmente possibile sulla cravatta di Colin; allo stesso modo, l’autore ricorre molto poco ai termini di paragone, alle metafore o alle immagini: la lingua, attraverso ogni singola parola, crea la realtà sensibile senza il benché minimo giro di parole. L’oggetto è sempre presentato come unico alla pari della parola, che è unica. Se l’autore compie un paragone, nel senso abituale del termine, raramente ciò avviene in modo esplicito e determinato. Solo il lettore, dopo attenta riflessione, può relazionare la frase a uno stile grammaticale conosciuto e valido mentre la lingua dell’autore assimila l’oggetto all’immagine e rinchiude entrambi in una stessa forma linguistica che è, al tempo stesso, oggetto e immagine. In un secondo momento, la mente umana, fedele alle forme di pensiero tradizionali, tenta di spiegare in modo razionale ciò che le sembra un’anomalia e include un rapporto logico che, in origine, non ha alcuna ragione d’essere. Un esempio di questo tipo lo si trova in La schiuma dei giorni: “I vetri di ceramica gialla sembravano appannati e velati da una nebbiolina, e i raggi, anziché rimbalzare in goccioline metalliche, si sfracellavano al suolo per poi spargersi in piccole e pigre pozzanghere. Le pareti, pomellate di sole, non brillavano più uniformemente come in precedenza”.
Forse che questa è la prima impressione che si prova di fronte a uno spettacolo? In lingua corrente, la frase comporterebbe l’uso di un qualsiasi “come se”, utile a introdurre un paragone o una metafora, ma qui non si ha niente di tutto questo. In effetti, non si tratta di tradurre, con le parole più precise possibili, una sensazione, ma piuttosto di ricrearla a partire dal linguaggio. Il problema non è trovare le parole che più si avvicinano alla realtà, ma costruire un’altra verità con parole che sono la diretta derivazione delle precedenti, che fanno parte del tutto, che sono anche le parole della malattia di Chloé e della tristezza di Colin; così come il restringimento della casa e l’invecchiamento di Nicolas sono indissociabili dal peggioramento della malattia. L’insieme si integra in una sola e unica realtà il cui linguaggio ne costituisce l’unità, la fonte, la giustificazione.
Alcuni obietteranno che l’opera di Boris Vian contiene anche una critica violenta della società e delle sue tare, e che l’autore si diverte a sviluppare un’acida ironia dove le parole fungono semplicemente da strumenti. Anche in questo caso, tuttavia, gli attacchi e i sarcasmi sono innanzitutto il prodotto del linguaggio. Abbiamo già visto in precedenza come Vian si ingegna a deformare le parole: le chuiche, le bedon ecc… facendosi beffe del linguaggio. La sua critica al rigido linguaggio clericale e, attraverso di esso, alla chiesa stessa, si esercita tramite la figura dell’abate Petitjean, protagonista di L’autunno a Pechino, a cui mette in bocca un linguaggio parimenti rigido e vuoto di significato che richiama quello, convenzionale e stupido, dei giochi infantili. A volte, il personaggio ricorre anche all’uso di proverbi e detti popolari che, per loro natura, non vogliono dire niente. In questo caso specifico la satira è rappresentata dalla sostituzione di queste forme linguistiche agli usuali paternoster.
In La schiuma dei giorni si ha un esempio simile quando Vian critica la figura del domestico attraverso la persona di Nicolas, il cuoco di Colin; l’effetto, in questa occasione, non è generato da un solo tipo di linguaggio ma dalla dualità dell’espressione: Nicolas, vestito da domestico, si rivolge a Colin alla terza persona; tuttavia, quando si cambia d’abito, gli dà del tu. La discrepanza linguistica che ne risulta è di per se stessa portatrice di satira. Certo questo procedimento non è una novità introdotta da Vian ma lo si trova molto spesso in letteratura; in Molière, ad esempio, ma più in generale anche in autori che hanno tratto ispirazione dalla critica sociale o simili.
Di frequente, la critica sociale risulta molto meno ovvia rispetto ai casi citati in precedenza. A volte, risiede in un’unica parola, come l’espressione “inabitanti persuasibili”, tratta dalla lingua inglese, che tuttavia comporta, nella sua trascrizione francese, un prefisso privativo in grado di conferirle un valore completamente diverso: la negatività e la passività delle parole utilizzate esprimono lo stato d’animo dei cittadini americani, vittime della propaganda massiccia, completamente incapaci di avere una visione personale e libera delle cose e impermeabili a qualsiasi critica obiettiva; vedesi anche Jean-Sol Partre (che storpia Jean-Paul Sartre) che al Saint-Germain-des-Près decade dal proprio rango grazie alla sola inversione delle lettere del suo nome e cognome.
La satira può anche essere insita nella presentazione linguistica, nella forma stessa. In Le formiche, ad esempio, la critica dell’esercito e della guerra è tanto più aspra quanto più il locutore è ingenuo. Egli non esprime alcun giudizio sulla situazione in generale o in particolare. Tutto l’attacco nasce direttamente dalla falsa obiettività documentale della narrazione.
Tuttavia, in questo contesto, affermare che il linguaggio crea la realtà sarebbe sbagliato. Ogni forma di satira, e con essa ogni denuncia, suppone, in effetti, un vizio preliminarmente esistente. Ma anche qui il linguaggio gioca un ruolo determinante. Senza di esso, la critica non esisterebbe. È come una lente da cui le cose escono riviste e corrette, messe in ridicolo. Ricreatore della realtà, esso è il creatore di un simbolismo che si sovrappone alla società, e a volte addirittura la sostituisce. Anche in questo caso, il linguaggio costruisce un insieme coerente che si sostituisce al mondo. L’esempio più ovvio è forse quello di Lo strappacuore, condanna radicale di un’intera società e delle sue abitudini, ma condanna anche di tutto un mondo. Un’opera caratterizzata da una rete talmente fitta di critiche correlate tra loro che lo stile satirico resta in penombra. L’attacco, benché sistematico, non cade mai nell’invettiva o nella dimostrazione ponderata. Manifestandosi sotto forma di affabulazione, l’attacco non è mai astratto né teorico, ma si integra quasi sempre alla poesia che non manca mai di essere presente nelle opere di Vian. Che si tratti del dolce dondolio di Le formiche, o dello spirito epico che anima il curato di Lo strappacuore, o dell’estrema violenza che divampa al funerale di Chloé, il linguaggio e il ritmo delle frasi nella critica sono portatori di innegabile poesia.
Distruttore e costruttore, ricreatore e creatore della realtà, il linguaggio non è mai, neanche durante le critiche più violente, un semplice strumento espressivo. Spesso padrone, sempre fondamentale, il linguaggio è la fonte stessa dell’opera e ne è anche la giustificazione. Ogni essere e ogni pensiero deve a lui la sua esistenza.
Questa priorità del linguaggio è una delle componenti della poesia di Vian. È una sinfonia di parole da cui nascono l’idea, l’opera e l’arte. La vera poesia è proprio quella che rifiuta la lingua comune e le frasi fatte, che nega lo stile e la retorica per conferirgli il potere di raccontare, in modo nuovo, un mondo interiore che si ribella alla società in cui viviamo, un mondo che si sta cercando e che il linguaggio esplora esplorando se stesso, come dichiarato anche da Freddy de Vree nel suo saggio dedicato a Boris Vian. Del resto, quest’ultimo si inserisce in tutta una tradizione letteraria dove “il verbo è Dio”.
Il poema, nello specifico l’opera di Vian, non è mai traduzione, ma inscindibile creazione della forma e del fondo. Anziché limitarsi al ruolo puramente meccanico di espressione dell’idea, il linguaggio è l’unico mezzo che permette di dare vita a una realtà soggettiva; l’universo si realizza in questa formula nuova che gli conferisce un’essenza, una struttura, un significato e un valore.