Pirandello e io
Traducción de Annamaria Martinolli
Il presente articolo è stato pubblicato per la prima volta sul quotidiano La Nación, di Buenos Aires, il 15 luglio del 1923. L’autore è Miguel de Unamuno. La traduzione è di Annamaria Martinolli.
Si tratta di un fenomeno curioso, già verificatosi molte volte nella storia della letteratura, dell’arte, della scienza o della filosofia: due spiriti che, senza conoscersi né conoscere le loro rispettive opere, e senza mettersi in contatto l’uno con l’altro, perseguono la stessa strada ed elaborano concezioni analoghe o arrivano alle stesse conclusioni. Si direbbe essere qualcosa che fluttua nell’aria. O meglio, qualcosa che pulsa nelle profondità della storia, e cerca qualcuno in grado di svelarlo.
Dico questo a proposito del significato dell’opera dello scrittore siciliano Luigi Pirandello, – attualmente a Roma, intento a scrivere, come io ora sto facendo qui, a Salamanca, – da poco conosciuto e celebrato anche fuori dal suo paese, dopo aver raggiunto, proprio là, una tardiva fama. Io, curioso e diligente osservatore della vita italiana, fino a poco meno di un anno fa non sapevo nulla sul suo conto. Quando, nel 1917, mi recai in Italia, nessuno mi parlò di lui, e se ora mi focalizzò sulla sua persona e la sua opera – che ancora oggi conosco molto poco, in modo frammentario, e soprattutto per via indiretta – è perché, in Italia, viene spesso citato accanto al mio nome. Il successo, per me imprevisto – e sto cercando di essere il più obiettivo possibile – che le mie opere letterarie hanno riscosso in Italia – successo superiore a quello ottenuto nei paesi ispanofoni – mi ha portato a conoscere Pirandello, il cui nome, i critici italiani, associano spesso al mio. Devo ammettere che, per quel poco che finora ho appreso sullo scrittore siciliano, mi è sembrato di vedere in lui, come in uno specchio, molti dei miei più intimi modi di agire, e più di una volta, leggendolo, ho pensato: “Io avrei detto lo stesso!”. E tuttavia, sono quasi sicuro che la mia scarsa conoscenza delle sue opere sia equiparabile alla scarsa conoscenza che egli ha delle mie.
Si sente l’originalità dell’autore, ed è proprio per questo che mi riconosco in lui. Uno scrittore non si riconosce mai in un’imitazione, per quanto perfetta essa sia. Esiste un ingegno, un X, un io più profondo del mio io empirico o fisiologico, e dell’io empirico e fisiologico del Pirandello scrittore, che ha cercato un ingegno in lui e in me, un Io X, come direbbe Silvio Tissi, un altro italiano.
Questa distinzione tra l’io empirico o fisiologico e l’io trascendente – forse immanente – o storico, è l’elemento che accomuna le nostre rispettive opere, quella di Pirandello e la mia. La prima volta che ho visto citare Pirandello è stato in occasione di un’eccellente critica alla traduzione italiana del mio romanzo Nebbia, che in Italia non sembrò né così insolito né così enigmatico come è accaduto qui. Le angosce del mio Augusto Pérez – ma non sarebbe meglio dire le mie piuttosto che le sue? – nei confronti del mio negargli, in quanto suo presunto autore, un’esistenza reale e indipendente, e i suoi sforzi per sopravvivere, furono commentati in rapporto alle idee di Pirandello, che da sole costituiscono un’intera filosofia estetica. Ovviamente, nella critica non mancava l’inevitabile epiteto di paradosso. Perché quando affermiamo, con la massima serietà, serietà umoristica – la più seria che esiste – che Don Chisciotte e Sancho Panza possiedono una realtà storica superiore a quella di Cervantes, e che non è stato Shakespeare a creare Macbeth, Amleto, Re Lear, Falstaff e Otello ma sono stati loro a creare lui, tutto questo non sembra entrare nella testa di coloro che hanno studiato storia senza un minimo di senso storico. E questo succede alla maggior parte degli storici.
Un altro dei concetti che l’io incognito seminò in me e in Pirandello fu il modo di vedere e sviluppare le personalità storiche – ovvero di finzione – come un flusso ricco di contraddizioni, come una serie di io, come un fiume spirituale. Tutto il contrario di quello che nella drammaturgia tradizionale si chiama carattere. “Non riesco a definirla”, mi disse una volta un teologo. E io gli risposi: “Buon per me, poiché se lei o un altro riusciste a definirmi significa che sarei già morto”.
Sostiene Pirandello: “Un essere che nasce da quella facoltà creativa che risiede nello spirito umano, è destinato, per sua natura, a una vita superiore che il comune mortale, nato dal seno di una donna, non vive. Quando si nasce personaggio, quando si ha la ventura di nascere personaggio vivo, ci si fa beffe della morte perché non si muore più! L’artista, lo scrittore, il meschino strumento di questa creazione morirà, felicemente, ma la sua creatura non muore più. E per essere immortale non ha bisogno di doti straordinarie o di compiere prodigi. Chi erano Sancho Panza o Don Abbondio? Eppure continuano a vivere perché, vivi germi, ebbero la ventura di incontrare una matrice feconda, una fantasia in grado di allevarli e nutrirli”.
In Pirandello, un’altra espressione che mi sembra caratteristica è quella in cui afferma che quei personaggi storici che gli uomini empirici e fisiologici definiscono di finzione sono forse meno reali, ma più veri! Cos’è reale? Cos’è vero? Esiste una realtà non vera? Esiste una verità non reale? Tutto il problema dell’arte e della filosofia consiste in questo. È il problema della storia. Problema della storia? La storia non ha problemi. È la storia stessa a essere un problema in continuo sviluppo, che ogni istante si risolve e, nel momento stesso in cui ciò avviene, torna a porsi. Il problema della storia è più quello della verità che della realtà.
“Realtà” deriva da “reale” e “reale” da res, cosa. Di solito, il reale viene contrapposto all’ideale, e la realtà viene contrapposta all’idealità. Perché avviene questo? Forse che le idee non sono altrettanto vere quanto quegli elementi che chiamiamo cose? In effetti sono più vere perché sono più durature. Mentre la verità delle cose consiste nella loro idealità.
Non sono le storie più vere, più stravaganti, più esornate, con quelle mise esteriori di circostanze passeggere, quelle da cui sgorga maggiormente la cosiddetta atmosfera temporale e spaziale. Ogni opera d’arte viva e duratura, vera, in cui magari non sono depositate specifiche caratteristiche geografiche o cronologiche, in cui non vengono descritti gesti né tragitti né stili, possiede una profonda realtà temporale e spaziale in cui è stata concepita. Tucidide, che disprezzava la stravaganza di Erodoto, era consapevole di scrivere la sua storia una volta per sempre. E basta leggere nell’introduzione alla Historia de los movimientos, separación y guerra de Cataluña en tiempo de Felipe IV (1645) quanto sostiene l’autore, Don Francisco Manuel de Melo, il portoghese che sapeva bene come maneggiare la lingua castigliana, a proposito della stravaganza nella storia. Ho letto che la maggior parte delle novelle e racconti di Pirandello sono brevi e scheletrici, concepiti e realizzati come fossero dei drammi, con il minimo numero di postille e in modo che il lettore li veda vivere, ovvero cambiare e contraddirsi, mentre i personaggi, ognuno dei quali possiede una schiera di “io”, si sviluppano progressivamente. Non ho ancora avuto modo di verificare a sufficienza questo resoconto, ma per quel poco che, finora, sono riuscito a leggere di Pirandello, l’ho visto confermato. E va detto che in quel poco ho trovato più verità, più profonda verità umana, di quanto ne abbia trovata in altri racconti e romanzi che si spacciano per realisti.
In gioventù, quando avevo trentatré anni, pubblicai un romanzo storico intitolato Pace nella guerra, ora in fase di riedizione, ambientato durante la terza guerra carlista che va dal 1872 al 1876. Quel romanzo contiene un’enorme quantità di minuziosi dettagli spazio-temporali, tutti accuratamente confrontati, e la narrazione del bombardamento di Bilbao nel 1874 può benissimo essere scambiata per il cruento resoconto di un cronista. Tuttavia, credo che in esso non ci sia più verità di quanta se ne trovi nel mio già citato Nebbia, o nei racconti che compongono la raccolta Tre novelle esemplari e un prologo. L’Alejandro Gómez di Nientemeno che un vero uomo, uno dei tre racconti di cui sopra, mi sembra più autentico del protagonista di Pace nella guerra. Anche se, a rigor di logica, non lo è o rappresenta il popolo intero.
Tutti gli eroi di quella che viene da noi definita finzione, tutti gli uomini archetipi e creatori – poiché nessuno crea di più di un eroe di finzione – vivono non per merito del cosiddetto realismo. Per Don Juan Tenorio, ad esempio, non farebbe differenza essere vestito altrimenti o collocato in un tempo e in uno spazio diversi da quelli prescelti da Tirso De Molina o José Zorrilla. Ho letto da qualche parte che Amleto è stato rappresentato in Giappone vestito da giapponese e ivi ambientato. Hanno fatto bene. Era il modo giusto di preservare la sua verità, quella verità che soffoca nel realismo.