Stupore e tremori: un viaggio infernale all’interno di una ditta giapponese (III)
Traducción de Annamaria Martinolli
Il presente saggio è tratto dalla rivista online Astrolabe, a cura del Centre de Recherche sur la Littérature des Voyages, settembre 2006. L’autore è David Ravet, insegnante di letteratura francese presso il Collegio Universitario Francese e l’Università Statale Lomonossov di Mosca, e presso l’Università Paris-Sorbonne (Paris IV) e l’Università Vincennes-Saint-Denis (Paris VIII). La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli. Il copyright appartiene a David Ravet, tutti i diritti riservati.
Si procede qui di seguito ad analizzare nei dettagli le strutture che contraddistinguono il romanzo Stupore e tremori e il film che ne è stato tratto. Saranno inoltre esaminate le varie forme di razzismo evidenziate dall’autrice.
Sono due le opposizioni che sembrano strutturare il film. La prima è l’opposizione tra la prigionia dell’eroina, a causa del sistema regolamentato e gerarchizzato dell’impresa, e il motivo del sorvolo diurno o notturno della città da parte di Amélie. Questa ripetizione corrisponde al motivo ricorrente della defenestrazione mentale presente nel libro. Nel film, è accentuata dall’aggiunta di un frammento delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach durante ogni sorvolo della città compiuto da Amélie. In questo modo, la ripetizione musicale si ricollega alla liberazione e all’evasione dell’eroina. Il sorvolo è presente dal ventesimo minuto e quarantacinque secondi al ventesimo minuto e cinquantanove secondi, per poi ricomparire dal trentatreesimo minuto e trentasette secondi al trentatreesimo minuto e cinquanta secondi.
La seconda opposizione riguarda i rapporti tra Amélie e il Giappone. Infatti, il mondo reale dell’impresa moderna si oppone al mondo del Giappone tradizionale idealizzato dall’infanzia dell’eroina. Il film, in questo caso, si avvale di un elemento nuovo rispetto al libro evidenziando tale contrasto – fin dall’inizio della pellicola – attraverso la ripetizione di una sequenza che ci presenta l’eroina ancora bambina (e poi adulta, e poi con Fubuki) nel giardino di Kyoto realizzato nel XVI secolo. Questa sequenza si oppone alla macchina infernale dell’impresa che stritola Amélie e spiega, in modo più immaginifico, il fascino persistente che l’eroina prova per il Giappone e la sua volontà di non dimettersi. La scena più forte di tale opposizione è il passaggio dalla sequenza di Amélie nei bagni a quest’immagine della bambina nel giardino armonioso strutturato secondo la massima precisione e abilità dell’arte giapponese. L’episodio si svolge dal settantatreesimo al settantacinquesimo minuto della pellicola.
Un passo del libro, ripreso in parte dalla voce fuori campo, accentua il legame di causalità tra i ricordi infantili e le reazioni dell’eroina alle torture di Fubuki:
Immagino che chiunque, al posto mio, si sarebbe licenziato. Chiunque, salvo un giapponese. Assegnarmi quel posto, da parte della mia superiore, era una maniera per costringermi a gettare la spugna. Licenziarsi voleva dire perdere la faccia […] Mi sarei comportata come una giapponese. In questo, non sfuggivo alla regola: lo straniero che voglia integrarsi in Giappone si fa un punto d’onore di rispettare gli usi dell’Impero. […]
Ero consapevole di questa ingiustizia e tuttavia chinavo profondamente la testa. I più incomprensibili atteggiamenti di una vita sono spesso dovuti al persistere di un offuscamento di gioventù: da bambina, la bellezza del mio universo giapponese mi aveva tanto colpita che andavo ancora avanti grazie a quel serbatoio affettivo. Adesso avevo sotto gli occhi l’orrore di un sistema che negava ciò che io avevo amato, e tuttavia restavo fedele a quei valori nei quali non credevo più. Non persi la faccia. Per sette mesi, restai assegnata ai bagni dell’azienda Yumimoto.
Questa citazione evidenzia anche il problema dell’integrazione di una straniera in una società da essa idealizzata durante l’infanzia.
Lo sguardo di una straniera sul Giappone
1. I livelli di razzismo
Nell’intervista rilasciata da Amélie Nothomb a Christiane Charette (nel novembre 1999), la scrittrice riprende anche l’espressione “tragicommedia razzista” utilizzata dalla giornalista:
La si può ritenere una tragicommedia razzista, salvo l’ovvia sfumatura che non tutti i giapponesi sono razzisti; è un po’ come in Europa, il razzismo esiste, ma non tutti sono razzisti. In Giappone, il razzismo esiste, anche a livelli molto alti, ma non tutti i giapponesi sono razzisti. In compenso, però, alcuni lo sono. Lei [Fubuki] per esempio lo è. Si tratta di una forma di razzismo molto peculiare perché non consiste nel dirti in faccia: “Vattene da qui sporca bianca!” ma nel farti capire, con molti sottintesi, che appartieni davvero a una razza inferiore e non al popolo eletto che, per ovvi motivi, è quello giapponese.
Nel libro sono esposti diversi livelli di razzismo antioccidentale.
Il primo livello deriva dalle teorie razziali del XIX secolo e corrisponde ai rapporti tra razza e caratteristiche fisiche. Lo si riscontra solo nel libro e riguarda le osservazioni di alcuni quadri giapponesi riferite all’igiene corporale di un quadro olandese di nome Piet Kramer. La scrittrice si avvale di dialoghi molto crudi. Le battute dimostrano che, per i giapponesi, un individuo rappresenta la sua razza e, di conseguenza, è determinato dalle caratteristiche fisiche della sua appartenenza occidentale. Secondo questa logica, l’essere non può sfuggire né alla sua eredità né al sudore maleodorante tipico di quella razza. Questa forma di razzismo è illustrata dal seguente passo:
Non ci fu più dubbio: la traspirazione di Piet Kramer puzzava. E nessuno nel grande ufficio avrebbe potuto ignorarlo. […] Quando lo straniero odoroso se ne andò, la mia superiore era esangue. […] Il capo del settore, il signor Saito, fu il primo a mettere becco e a colpire: “Non avrei potuto resistere un minuto di più!”. Autorizzava, così, ogni maldicenza. Gli altri ne approfittarono subito: “Si rendono conto, questi bianchi, che appestano l’aria?”. “Se solo riuscissimo a fargli capire che puzzano, finalmente avremmo in Occidente un mercato favoloso per deodoranti efficaci!”. “Potremmo forse aiutarli a puzzare di meno, ma non potremo mai evitare che sudino. È la loro razza”. […] Se lo scandalo ascellare dell’olandese non fosse stato notato, lei [Fubuki] avrebbe potuto ancora illudersi e chiudere un occhio sulla tara congenita dell’eventuale fidanzato.
La suddetta scena razzista entra a far parte dell’intrigo poiché la signorina Fubuki desiderava instaurare un rapporto con l’olandese celibe. Questo primo livello di razzismo è condannato dall’ironia della scrittrice: “Le narici di quest’ultima [Fubuki] palpitavano: non era difficile indovinarne la ragione. Si trattava di stabilire se l’ignominia ascellare dell’olandese si manifestasse sotto entrambe le specie”.
Il secondo livello di razzismo corrisponde al problema della superiorità e dell’inferiorità delle razze, alla loro ineguaglianza espressa tramite una classificazione delle stesse in base all’intelligenza degli individui che a esse appartengono. Il signor Saito, e soprattutto Fubuki Mori, umiliano e fanno sentire inferiore Amélie in virtù della superiorità della razza giapponese sulla razza occidentale (e anche in virtù del migliore funzionamento del cervello giapponese). Questo tipo di razzismo è onnipresente nelle battute dei dialoghi del libro e del film. È fortemente connesso al culto dell’obbedienza raccomandato dalla società giapponese. La prima volta che Amélie si confronta con il razzismo dei suoi superiori è a causa della sua perfetta padronanza della lingua giapponese. L’eroina ha irritato, con il suo comportamento, una delegazione amica e il signor Saito, furibondo, la convoca in un ufficio vuoto. Il signor Saito ricorre, senza saperlo, a un imperativo paradossale poiché ordina ad Amélie di dimenticare di conoscere la lingua giapponese. Per lui, l’ordine rigido deve negare e trascendere la realtà, il buon senso e la Ragione:
Lo seguii in un ufficio vuoto. Mi parlò con una collera che lo rendeva balbuziente: “Lei ha profondamente turbato la delegazione dell’azienda amica! Ha servito il caffè con formule di cortesia che lasciavano intuire la sua perfetta conoscenza del giapponese!”. “Beh, non lo parlo tanto male, Saito-san”. “Stia zitta! Con quale diritto si difende? Il signor Omochi è molto arrabbiato con lei. Ha creato un’atmosfera detestabile nel corso della riunione di stamattina: come avrebbero potuto sentirsi a loro agio i nostri partner con una bianca che capiva la loro lingua? A cominciare da adesso, lei non parla più il giapponese”. Sgranai gli occhi. “Prego?”. “Lei non conosce più il giapponese, chiaro?”. […] “Da adesso le ordino di non capire più il giapponese”. “Impossibile. Nessuno può ubbidire a un ordine del genere”. “C’è sempre il modo di ubbidire. E i cervelli occidentali dovrebbero capirlo, una buona volta”. “Ci siamo”, pensai prima di ribattere. “Il cervello nipponico è probabilmente capace di dimenticare una lingua. Il cervello occidentale non ne ha facoltà”. Questo argomento stravagante gli parve accettabile.
Nel film, la scena corrispondente è visionabile a partire dall’undicesimo minuto. Il volto di Sylvie Testud manifesta incomprensione e meraviglia, nonché stupefazione, mentre il signor Saito compie dei gesti bruschi e nervosi.
Questa forma di razzismo viene anche presentata come strumento o supporto al sadico piacere personale della signorina Mori, nello specifico durante la scena delle dimissioni di Amélie. In questo caso, il razzismo è integrato nel rapporto paradossale tra le due eroine: odio e piacere di Fubuki di fronte ad Amélie, e fascino, masochismo e incomprensione di Amélie nei confronti di Fubuki.
Il parossismo di tale rapporto è espresso nel film attraverso due procedimenti: la scena immaginata da Amélie del duello con la pistola (novità del film) in cui l’eroina viene uccisa da Fubuki, e una sequenza fondamentale della pellicola Furyo di Nagisa Oshima, del 1983, raffigurante il supplizio di David Bowie la cui testa spunta dalla sabbia. Questa ripresa di un fotogramma cinematografico ricalca il riferimento letterario che Amélie Nothomb fa al film giapponese. Nel libro, il riferimento si inserisce non solo all’interno di un paragone che l’eroina compie tra il suo rapporto con Fubuki e quello dei personaggi principali del film, ma anche nella presentazione ed implicita condanna di un razzismo che si fonda su un revisionismo storico e si nutre dello stesso. Tale revisionismo riguarda gli aspetti più cupi della storia del Giappone: nello specifico gli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale. Ecco come ne parla Fubuki, e come lo denuncia Amélie:
Un giorno, mentre si lavava le mani, le chiesi se aveva visto quel film. Annuì. Dovevo essere in una giornata coraggiosa perché continuai: “Le è piaciuto?”. “La musica era bella. Peccato che raccontasse una storia inventata”. (Senza saperlo, Fubuki praticava il revisionismo soft ancora in voga tra molti giovani del Paese del Sol Levante: i suoi compatrioti non dovevano rimproverarsi nulla quanto all’ultima guerra, e le incursioni giapponesi in Asia avevano avuto il solo scopo di proteggere gli indigeni contro i nazisti. Non se ne parlava di discutere con lei).
La scena del duello con la pistola si svolge dal settantasettesimo minuto al settantasettesimo minuto e quarantasette secondi. La scena riguardante il film di Oshima, e il conseguente ritorno all’intrigo, dall’ottantaduesimo minuto all’ottantacinquesimo minuto.
2. Presentazione generica della condizione della donna giapponese
Questa presentazione generica è tipica del libro. Si manifesta come una spiegazione del comportamento di Fubuki. Il passaggio dal racconto di un’esperienza personale al mini-saggio sociologico (sviluppato da pagina novantadue a pagina centotredici), a una riflessione sui dogmi, i divieti e la struttura della società giapponese, conferisce una dimensione emblematica a Fubuki. Infatti, quest’ultima si converte nell’archetipo della donna giapponese. Il passaggio dalla descrizione specifica, dettagliata a quella generale si esprime così:
Tutto chiaro: alla Yumimoto, Dio era il presidente e il vicepresidente era il Diavolo. Fubuki, invece, non era né Dio né il Diavolo: era una giapponese. Non tutte le giapponesi sono belle. […].
Le riflessioni di Amélie Nothomb derivano dal suo modo di percepire Fubuki: “A questo pensavo contemplando Fubuki».
L’enunciazione è diversa: si passa dall’“io” personale all’“io” che rappresenta la voce delle Usanze giapponesi, la rigida organizzazione morale o la Divinità pianificatrice della società giapponese. Quest’ultimo “io” può essere così descritto: “Non è possibile enumerare tutti i tuoi doveri, perché non esiste attimo della tua vita che non sia dominato da uno di essi”. Questo “io” si rivolge direttamente al pubblico femminile attraverso una serie di comandamenti. Il “tu” è quindi un interlocutore generale. È un’enallage personale che rafforza questo rapporto tra i dogmi morali e la donna giapponese che li subisce. L’imperativo è il tempo più utilizzato in questo passo del libro. Una delle maggiori problematiche di questo tipo di società è il rapporto tra desiderio di perfezione e suicidio. Il suicidio è percepito molto positivamente. Secondo Amélie Nothomb, la donna giapponese riceve un’educazione dove sogno, piacere e gioia sono vietati e dove esiste il culto del lavoro e della perfezione. Di conseguenza, una giovane come Fubuki non ha vie di scampo. Il sistema in vigore per le donne, nel suo rapporto tra lavoro e matrimonio, viene visto come un paradosso. Un paradosso doloroso descritto nel modo seguente:
C’era dunque un’incongruenza nelle regole previste per le donne: essere irreprensibile lavorando con accanimento portava a superare i venticinque anni di età senza sposarsi e, di conseguenza, a non essere irreprensibile. Il colmo del sadismo del sistema sta nella sua contraddizione: rispettarlo porta a non rispettarlo.
Conclusione
Stupore e tremori di Amélie Nothomb racconta, con uno stile vivace, pungente e ironico, un’avventura viatica che l’eroina, sosia dell’autrice, ha vissuto come qualcosa di estremamente violento.
Il film, malgrado la fedeltà al testo letterario, possiede una propria originalità a livello strutturale, linguistico e musicale. Infatti, Alain Corneau utilizza la ripetizione delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach come contrappunto alla prigionia e all’umiliazione dell’eroina in un’azienda straniera. La ripetizione-variazione della sequenza che mostra Amélie in un giardino di Kyoto conferisce un carattere circolare alla struttura del film e si oppone alla macchina infernale moderna dell’azienda giapponese. Essa esplicita anche il comportamento di Amélie nei confronti degli incarichi sempre più umilianti che le vengono assegnati. I dialoghi del film sono in lingua giapponese. Questo permette di illustrare meglio il concetto di straniero e i problemi di “integrazione razziale” (espressione della scrittrice) percepiti dall’eroina belga.
Nel romanzo sono descritti il razzismo fisiologico in base al quale la razza determina le caratteristiche fisiche dell’individuo, il razzismo dell’ineguaglianza delle razze e il razzismo derivante dal revisionismo storico che inoltre si nutre di esso. Queste tre forme di razzismo sono descritte crudamente e denunciate dalla scrittrice ricorrendo all’ironia e al comico. Nel film, solo il razzismo relativo alla superiorità e all’inferiorità delle razze è onnipresente; soprattutto nelle scene di dialogo tra Amélie e i suoi superiori: il signor Saito e la signorina Fubuki Mori. Questo razzismo si inserisce nel “rapporto paradossale” intrattenuto da Amélie e Fubuki. Si tratta di un rapporto che simboleggia il fascino e l’incomprensione che legano l’eroina al Giappone.
Informazioni aggiuntive
I passi tratti dal volume Stupore e tremori, di Amélie Nothomb, sono riportati nella traduzione ufficiale eseguita da Biancamaria Bruno per la casa editrice italiana Voland. Il volume è stato, in seguito, riedito da Adelphi con il medesimo titolo. Il DVD del film Stupeur et tremblements è disponibile in lingua francese e giapponese, con sottotitoli in francese.