Breve discorso sulla cultura
Traducción de Annamaria Martinolli
Il presente articolo è stato pubblicato per la prima volta nel luglio 2010 sulla rivista culturale Letras libres. Si ringrazia Mario Vargas Llosa per l’autorizzazione alla traduzione a cura di Annamaria Martinolli.
Nel corso della storia, il termine cultura ha assunto significati diversi e sfumature distinte. Per molti secoli si è trattato di un concetto indivisibile dalla religione e dal sapere teologico; in Grecia fu segnato dalla filosofia, a Roma dal diritto, mentre nel Rinascimento era intriso soprattutto di arte e letteratura. In epoche più recenti, come ad esempio l’Illuminismo, furono soprattutto la scienza e le grandi scoperte scientifiche a stabilire l’orientamento principale del concetto di cultura. Tuttavia, malgrado queste varianti e ancora in epoca attuale, il termine cultura è sempre stato concepito come una somma di fattori e discipline che, secondo un ampio consenso sociale, lo costituivano e che esso presupponeva: la rivendicazione di un patrimonio di idee, di valori e di opere d’arte, di conoscenze storiche, religiose, filosofiche e scientifiche in costante evoluzione, e lo stimolo ad esplorare nuove forme artistiche e letterarie, e ad attuare ricerche in ogni campo del sapere.
La cultura ha sempre determinato distinzioni sociali tra coloro che la coltivavano, la arricchivano con apporti diversi, la facevano progredire, e coloro che se ne disinteressavano, la disprezzavano o la ignoravano, o se ne sentivano esclusi per ragioni economiche e sociali. In tutte le epoche storiche, compresa la nostra, la società è sempre stata formata da persone colte e incolte, e, tra i due estremi, da persone più o meno colte o più o meno incolte; e questa gerarchia risultava sufficientemente chiara per il mondo intero, poiché per tutti vigeva lo stesso sistema di valori, criteri culturali e modi di pensare, giudicare e comportarsi.
Ora tutto questo è cambiato. La nozione di cultura si è estesa a tal punto che, malgrado nessuno abbia il coraggio di ammetterlo in modo esplicito, è svanita. Si è trasformata in un fantasma inafferrabile, massivo e traslato. Poiché più nessuno è colto se tutti credono di esserlo, o se il contenuto di quello che definiamo cultura è stato corrotto a tal punto che tutti possono ragionevolmente credere di esserlo.
Il segnale più remoto di questa progressiva mescolanza e confusione di quanto costituisce una cultura fu dato dagli antropologi che, in totale buona fede, furono ispirati dalla volontà di rispetto e comprensione delle società primitive oggetto dei loro studi. Essi stabilirono che una cultura era la somma delle credenze, conoscenze, linguaggi, usi, costumi, modi di vestirsi, rapporti parentali e, in sintesi, di tutto quello che un popolo dice, fa, teme o adora. Questa definizione non si limitava a concepire un metodo per indagare la specificità di un conglomerato umano rispetto agli altri. Voleva innanzitutto abiurare da quell’etnocentrismo pregiudizievole e razzista di cui l’Occidente non ha mai smesso di accusarsi. Lo scopo non avrebbe potuto essere più generoso, ma già conosciamo il famoso detto secondo il quale la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Infatti, una cosa è credere che tutte le culture siano degne di considerazione, poiché indubbiamente contribuiscono positivamente alla civiltà umana, un’altra, molto diversa, è credere che tutte queste culture, per il solo fatto di esistere, si equivalgano. Sorprendentemente è proprio quest’ultimo avvenimento ad essersi verificato, a causa di un enorme pregiudizio istigato dal benevolo desiderio di abolire una volta per tutte ogni forma di pregiudizio in materia di cultura. Il politically correct ha finito per convincerci che è arrogante, dogmatico, colonialista e addirittura razzista parlare di culture superiori e inferiori, e perfino di culture moderne e primitive. Secondo questo celestiale concetto, tutte le culture, a modo loro e nelle loro specifiche circostanze, sono uguali e sono pertanto espressioni equivalenti della meravigliosa diversità umana.
Se gli etnologi e gli antropologi hanno determinato questo livellamento orizzontale delle culture, diluendo fino all’invisibilità l’accezione tipica del termine, i sociologi, dal canto loro, – o per meglio dire, i sociologi impegnati nella critica letteraria – hanno condotto una rivoluzione semantica di pari portata, inserendo nell’idea di cultura, come parte integrante della stessa, l’incultura, camuffandola sotto il nome di cultura popolare: una forma di cultura meno raffinata, ricercata e pretenziosa dell’altra, ma anche molto più libera, autentica, critica, rappresentativa e audace. Dirò subito che da questo processo di demolizione dell’idea tradizionale di cultura sono nati libri molto suggestivi e brillanti quali L’opera di Rabelais e la cultura popolare di Michail Bachtin, dove l’autore, con arguti ragionamenti e gustosi esempi, contrappone la cultura ufficiale e aristocratica a quella che egli definisce la “cultura popolare”. Secondo il critico russo, infatti, mentre la prima germoglia e si sviluppa all’interno dei salotti, dei palazzi, dei conventi e delle biblioteche, la seconda le fa da contraltare nascendo e sviluppandosi per le strade, nelle taverne, durante le feste e i carnevali durante i quali la cultura ufficiale viene satireggiata con battute di spirito che ingigantiscono e mettono a nudo tutto quello che la cultura ufficiale nasconde o censura in quanto “squallido”, come ad esempio il sesso, le funzioni escrementizie, la grossolanità; opponendo quindi il lussurioso “cattivo gusto” al presunto “buon gusto” delle classi dominanti.
La suddivisione tra cultura ufficiale e popolare realizzata da Bachtin e da altri critici letterari di stirpe sociologica non va confusa con quella già da molto tempo esistente nel mondo anglosassone, ovvero highbrow culture e lowbrow culture: la cultura del sopracciglio alzato (degli intellettuali) e la cultura del sopracciglio abbassato (delle persone di bassa cultura). Poiché in quest’ultimo caso siamo ancora all’interno dell’accezione classica di cultura e quello che permette di distinguerle è il grado di facilità o difficoltà che l’evento culturale offre al lettore, ascoltatore, spettatore o semplice cultore. Un poeta come Thomas Stearns Eliot, e un romanziere come James Joyce, appartengono a una highbrow culture tanto quanto i romanzi e i racconti di Ernest Hemingway o i poemi di Walt Whitman appartengono alla lowbrow culture poiché sono facilmente accessibili ai lettori comuni. In entrambi i casi siamo sempre nell’ambito della letteratura pura e semplice, senza aggettivi. Bachtin e i suoi discepoli (consapevolmente o inconsapevolmente) hanno realizzato qualcosa di molto più radicale: hanno abolito le frontiere tra la cultura e l’incultura dando a quest’ultima una dignità importante, dimostrando che l’imperizia, la grossolanità e la sciatteria contenute in questo ambito venivano ampiamente compensate dalla vitalità, dall’umorismo, e dal modo disinvolto e autentico di rappresentare le esperienze umane maggiormente condivise.
In questo modo sono andati scomparendo dal nostro vocabolario, scacciati dal timore di incappare nel politically incorrect, i limiti che mantenevano separati la cultura dall’incultura e gli esseri colti dagli incolti. Oggi più nessuno è incolto o, per meglio dire, siamo tutti colti. Basta aprire un giornale o una rivista per imbattersi, negli articoli dei cronisti e dei gazzettieri, in innumerevoli riferimenti alla miriade di manifestazioni di questa cultura universale che tutti possediamo, come ad esempio “la cultura della pedofilia”, “la cultura della marijuana”, “la cultura punk”, “la cultura dell’estetica nazista” e così via. Oggigiorno siamo tutti colti in un modo o nell’altro, anche se non abbiamo mai letto un libro in vita nostra, né visitato una mostra d’arte, né ascoltato un concerto, né appreso i concetti fondamentali dei settori umanistici, scientifici e tecnologici del mondo in cui viviamo.
Volevamo mettere la parola fine alle élite, che ci ripugnavano moralmente per il tintinno privilegiato, spregiativo e discriminatorio di cui risuonava il solo nome di fronte ai nostri ideali egualitari e, nel corso del tempo, da diverse trincee, abbiamo progressivamente contestato e distrutto quella classe esclusiva di saccenti che si credevano superiori e si vantavano di monopolizzare il sapere, i valori morali, l’eleganza spirituale e il buon gusto. Ma quello che abbiamo ottenuto è una vittoria di Pirro, un rimedio peggiore del male: vivere nella confusione di un mondo dove, paradossalmente, poiché non è possibile sapere cosa sia la cultura, essa è costituita da tutto e da niente.
Certo mi si obietterà che nel corso della storia nessuno ha mai assistito ad un tale accumulo di scoperte scientifiche e di opere tecnologiche, né tantomeno alla pubblicazione di una tale quantità di libri, all’apertura di un così vasto numero di musei né all’esborso di somme così vertiginose per l’acquisto di opere d’arte antiche e moderne. Come si può parlare, quindi, di un mondo privo di cultura in un’epoca in cui le navicelle spaziali costruite dall’uomo hanno raggiunto le stelle e la percentuale di analfabetismo è la più bassa della storia dell’umanità? Questo progresso è innegabile, lo ammetto, eppure non è opera di uomini e donne colti ma di specialisti. E tra la cultura e la specializzazione vi è una distanza paragonabile a quella esistente tra l’uomo di Cro-Magnon e i sibariti nevrastenici di Marcel Proust. D’altro canto, benché oggi il livello di alfabetizzazione sia superiore al passato, si tratta di un fattore quantitativo e la cultura non ha molto a che vedere con la quantità, bensì con la qualità. Intendo dire che parliamo di cose diverse. Senza ombra di dubbio, è grazie all’eccezionale livello di specializzazione scientifica raggiunto che nel mondo di oggi possiamo disporre di un arsenale di armi di distruzione di massa in grado di distruggere più e più volte il pianeta in cui viviamo e di contaminare a morte gli spazi a esso contigui. Innegabilmente, si tratta di una prodezza scientifica e tecnologica, e allo stesso tempo di una flagrante manifestazione di crudeltà, quindi di un fatto prevalentemente anticulturale se la cultura è, come sosteneva Thomas Stearns Eliot: “tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta”.
La cultura è, o era quando esisteva, un denominatore comune; qualcosa che manteneva viva la comunicazione tra persone molto diverse, costrette a specializzarsi dal progredire della conoscenza e di conseguenza ad allontanarsi e a isolarsi le une dalle altre. La cultura era, allo stesso tempo, una bussola, una guida che permetteva agli esseri umani di orientarsi nello spesso groviglio della conoscenza senza perdere la strada e mantenendo ben chiare, nel loro interminabile percorso, le priorità, ovvero la capacità di distinguere le cose importanti da quelle meno importanti, di individuare la strada maestra e di evitare le inutili deviazioni. Nessuno può sapere tutto di tutto – non era possibile in passato e non lo è nemmeno oggi -, ma se non altro la cultura permetteva all’uomo colto di stabilire gerarchie e priorità nell’ambito del sapere e dei valori estetici. Nell’era della specializzazione e del crollo della cultura le gerarchie sono scomparse in un’amorfa mescolanza in cui, in base all’imbroglio che rende uguali tra loro le innumerevoli forme di vita battezzate con il termine di cultura, tutte le scienze e le tecniche si giustificano e si equivalgono, e non esiste alcun metodo per distinguere con un minimo di obiettività l’artisticamente bello dal brutto. Perfino fare un discorso del genere è considerato ormai fuori moda, poiché la nozione stessa di bellezza è stata screditata almeno quanto l’idea classica di cultura.
Lo specialista vede e va lontano nel suo ambito specifico di specializzazione, ma non è consapevole di quanto accade nel mondo che lo circonda e non distoglie mai lo sguardo per verificare i danni che le sue scoperte potrebbero provocare negli altri ambiti esistenziali, estranei al suo. Questo essere unidimensionale, come lo definì il filosofo Herbert Marcuse, può considerarsi allo stesso tempo un grande specialista e un incolto, perché le sue conoscenze, anziché avvicinarlo agli altri, lo isolano in un ambito specialistico che costituisce solo un granello del vasto dominio del sapere. La specializzazione, la cui esistenza è attestata fin dagli albori della civiltà, si è evoluta di pari passo con il progredire delle conoscenze, e gli elementi che mantenevano la comunicazione sociale, quei denominatori comuni che costituiscono il legame del tessuto sociale, erano le élite, le minoranze colte, che oltre a creare ponti e scambi tra le diverse province del sapere (la scienza, le lettere, l’arte e la tecnica) esercitavano un’influenza religiosa o laica, ma pur sempre carica di contenuto morale. In questo modo il progresso intellettuale o artistico non si allontanava troppo da una certa finalità umana, ovvero oltre a garantire migliori opportunità e condizioni di vita materiale, rappresentava un arricchimento morale per la società, con la riduzione della violenza, delle ingiustizie, dello sfruttamento, della fame, delle malattie e dell’ignoranza.
Nel suo celebre saggio Notes Towards the Definition of Culture, Thomas Stearns Eliot sostiene che la cultura non va identificata con la conoscenza – sembra quasi che si stia riferendo più alla nostra epoca che alla sua poiché mezzo secolo fa il problema non aveva raggiunto la gravità attuale – perché la cultura è qualcosa che precede e sostiene la conoscenza; è un atteggiamento spirituale, una sensibilità che orienta la conoscenza imprimendole una specifica funzionalità, qualcosa di paragonabile a un disegno morale. In qualità di credente, Eliot trova insita nei valori della religione cristiana quella protezione del sapere e della condotta umana che lui definiva cultura. Tuttavia non credo che la fede religiosa sia l’unico sostegno possibile per evitare la trasformazione della conoscenza in qualcosa di erratico e autodistruttivo come il sapere che moltiplica il pulviscolo atomico o che avvelena l’aria, l’acqua e il suolo che ci permettono di vivere.
A partire dal XVIII e dal XIX secolo, per un’ampia parte del mondo Occidentale, questa funzione la svolsero una morale e una filosofia laiche. Anche se, indubbiamente, per buona parte o per la maggior parte degli esseri umani è evidente che la trascendenza è una necessità o un’urgenza vitale dalla quale sono incapaci di distaccarsi senza cadere nell’anomia o nella disperazione totale.
Una serie di gerarchie nell’ampio spettro dei saperi che costituiscono la conoscenza; una morale molto comprensiva che rivendica la libertà e che permette a tutte le manifestazioni dell’essere umano di esprimersi, mantenendosi però ferma nel rifiutare tutto quanto svilisce e degrada la nozione fondamentale di umanità e minaccia la sopravvivenza della specie; un’élite conformata, né per ragioni di nascita, né per il potere economico o politico acquisito, ma per lo sforzo, il talento e le opere compiute, in grado di possedere un’autorità morale sufficiente per determinare, in modo flessibile e rinnovabile, un ordine di importanza dei valori sia nel contesto tipico dell’arte, sia in quello della scienza e della tecnica: questo fu la cultura nelle circostanze e nelle società più colte della storia, e questo dovrebbe tornare a essere se non vogliamo avanzare a tentoni, senza mete precise, come automi, verso la disintegrazione. Solo così la vita diventerebbe ogni giorno più vivibile per la maggior parte di coloro che ancora anelano dietro il sogno di un irraggiungibile mondo felice.
In questo contesto sarebbe sbagliato attribuire uguali funzioni alla scienza, all’arte e alla letteratura. Proprio perché ci siamo dimenticati di distinguerle è nata quella confusione che attualmente prevale nell’ambito della cultura. La scienza si evolve, come la tecnica, annientando il vecchio, l’antiquato e l’obsoleto; la scienza considera il passato un cimitero, un mondo di cose morte e superate dalle nuove scoperte e dalle ultime invenzioni. L’arte e la letteratura, invece, si rinnovano ma non progrediscono, non distruggono il loro passato, ma costruiscono qualcosa di nuovo a partire da esso, si nutrono di esso e lo nutrono a loro volta. Perciò per quanto lontani e diversi possano essere, un Velázquez possiede la stessa vitalità di un Picasso, e un autore come Cervantes è attuale quanto Borges o Faulkner.
Le idee di specializzazione e di progresso, che la scienza considera inseparabili, non hanno alcun valore in ambito letterario e artistico; questo tuttavia non significa che la letteratura, la pittura e la musica non cambino e non si evolvano, ma semplicemente che per esse non si può affermare, come per la chimica e l’alchimia, che la prima annulla la seconda e la supera. L’opera letteraria e artistica, che raggiunge un certo livello di eccellenza, non muore con il passare del tempo: continua a vivere e ad arricchire le nuove generazioni e ad evolversi con esse. Per questa ragione, l’arte e la letteratura hanno rappresentato fino a oggi il denominatore comune della cultura, lo spazio che rendeva possibile la comunicazione tra esseri umani, malgrado la differenza di epoca, di lingua, di tradizione e di credenza, poiché coloro che si emozionano con Shakespeare, ridono con Molière e restano ammirati davanti a un Rembrandt o a una sinfonia di Mozart, finiscono per avvicinarsi e parlare con coloro che nell’epoca in cui questi artisti scrissero, dipinsero o composero, li lessero, li ascoltarono e li ammirarono.
Questo spazio comune, che non si è mai specializzato ed è rimasto sempre alla portata di tutti, ha sperimentato periodi di estrema complessità, astrazione ed ermetismo, il che limitava la comprensione di alcune opere solo a una determinata élite. Ma queste opere sperimentali o d’avanguardia, se veramente manifestavano zone inedite della realtà umana e davano vita a forme di bellezza durevole, finivano sempre per educare i propri lettori, spettatori e ascoltatori integrandosi allo spazio comune della cultura. La cultura deve e può essere senza dubbio anche sperimentazione, a patto che le nuove tecniche e le nuove forme introdotte dall’opera così concepita estendano l’orizzonte dell’esperienza della vita, svelando i suoi segreti più nascosti, o esponendoli a valori estetici inediti in grado di rivoluzionare la nostra sensibilità e di darci una visione più sottile e innovativa di questo abisso senza fondo costituito dalla condizione umana.
Alcuni anni fa, a Parigi, ho visto in televisione un documentario che mi rimase impresso nella memoria, e le cui immagini, a volte, vengono rivitalizzate con rimbombante vigore dagli avvenimenti quotidiani, soprattutto quando si parla del più grande problema del nostro tempo: l’istruzione.
Il documentario descriveva i problemi di un liceo della periferia di Parigi. Uno di quei quartieri dove le famiglie francesi impoverite vivono in stretto contatto con immigrati subsahariani, latinoamericani e arabi maghrebini. Questa scuola secondaria pubblica, i cui alunni, di entrambi i sessi, costituivano una varietà di razze, lingue, usanze e religioni, era stata teatro di devastanti violenze: professori bastonati, studentesse stuprate nei bagni e nei corridoi, bande che si scontravano prendendosi a coltellate e a sprangate e, se non ricordo male, addirittura sparatorie. Non so se vi erano stati anche dei morti, ma di sicuro numerosi feriti e, ispezionando la struttura, la polizia aveva sequestrato armi, droghe e alcool.
Il documentario non aveva lo scopo di allarmare lo spettatore, al contrario, cercava di tranquillizzarlo dimostrando che il peggio era passato e che, grazie alla buona volontà delle autorità, dei professori, dei padri di famiglia e degli alunni, le acque si stavano calmando. Il preside, ad esempio, dichiarava con evidente soddisfazione che il metal detector appena installato, attraverso il quale dovevano passare tutti gli studenti che si recavano a scuola, permetteva di confiscare pugni di ferro, coltelli e tutte le altre armi dotate di lama. Questo aveva ridotto notevolmente gli episodi di sangue. Erano state date disposizioni in base alle quali né i professori né gli alunni potevano circolare da soli all’interno dell’istituto: anche solo per recarsi in bagno bisognava essere almeno in due. Come se non bastasse, adesso l’istituto disponeva di due psicologi in pianta stabile in grado di dare consigli agli alunni, quasi sempre orfani, semiorfani, o provenienti da famiglie disintegrate dalla disoccupazione, dalla promiscuità, dalla delinquenza e dalla violenza di genere, ingestibili o recalcitranti attaccabrighe.
Quello che più mi colpì nel documentario fu l’intervista a una professoressa che, in tutta spontaneità, affermava qualcosa del tipo: “Ora va tutto bene, ma in qualche modo bisogna pur arrangiarsi”. L’insegnante spiegava che, onde evitare gli assalti e le bastonate dei mesi precedenti, lei assieme ad altri professori si davano appuntamento a una determinata ora all’ingresso della metropolitana più vicina e facevano la strada a piedi fino all’istituto. Così il rischio di essere aggrediti dai voyous (teppisti) si riduceva. Quella professoressa e i suoi colleghi, che ogni giorno si recavano al lavoro come se andassero all’inferno, si erano ormai rassegnati, avevano imparato a sopravvivere e non sembravano immaginare minimamente che il lavoro dell’insegnante potesse essere diverso dalla loro via crucis quotidiana.
In questi giorni ho finito di leggere uno degli ameni e sofisticati saggi di Michel Foucault in cui il filosofo francese, con l’intelligenza arguta che gli è tipica, sosteneva che alla pari della sessualità, della psichiatria, della religione, della giustizia e del linguaggio, l’insegnamento è sempre stato, nel mondo occidentale, una di quelle “strutture di potere” erette allo scopo di reprimere e addomesticare il corpo sociale, inserendo sottili ma molto efficaci forme di sottomissione e di alienazione per assicurare il perdurare dei privilegi e il controllo del potere dei gruppi sociali dominanti. Bene, almeno per quanto riguarda l’insegnamento, a partire dal 1968 l’autorità castrante degli istinti libertari dei giovani se n’è andata in mille pezzi. Tuttavia, a giudicare dal documentario di cui sopra, che si sarebbe potuto realizzare in molte altre città della Francia e d’Europa, il crollo e il discredito del concetto stesso di docente e di docenza – e, in ultima istanza, di qualsiasi forma di autorità – non sembra aver condotto alla liberazione creativa dello spirito giovanile. Al contrario, nel migliore dei casi sembra aver trasformato le scuole liberate in istituzioni caotiche e, nel peggiore dei casi, in piccole satrapie fatte di mattoni e di delinquenti precoci.
È chiaro che il maggio ’68 non ha decretato la fine dell’“autorità”, che già da tempo stava affrontando un processo di indebolimento generale in tutti i settori: dalla politica alla cultura, in particolar modo nell’ambito dell’istruzione. Ma la rivoluzione dei ragazzi per bene, la crème de la crème delle classi borghesi e privilegiate di Francia, che furono protagonisti di quell’allegro carnevale che scelse come slogan del movimento il famoso: “Vietato vietare!”, firmò il certificato di morte del concetto di autorità, dichiarando legittima e glamour l’idea che ogni forma di autorità è sospetta, nociva e deprecabile, e che l’ideale libertario più nobile è quello di ripudiarla, negarla e distruggerla. Il potere non risentì minimamente di questa simbolica impertinenza dei giovani ribelli che, malgrado la maggior parte di essi lo ignorasse, portarono sulle barricate gli ideali iconoclasti dei pensatori come Foucault. Basta ricordare che durante le prime elezioni svoltesi in Francia dopo maggio ’68 la destra gaullista ottenne una netta vittoria.
Tuttavia l’autorità, intesa nel significato romano di auctoritas, e quindi non di potere ma di “prestigio e credito riconosciuto a una persona o istituzione per la sua legittimità o per la sua qualità e competenza in qualche materia”, non rialzò più la testa. Da allora, sia in Europa che in buona parte del resto del mondo, sono praticamente inesistenti le figure politiche e culturali in grado di esercitare quella funzione, morale e intellettuale, di “autorità” classica che a livello popolare era incarnata dai maestri, parola che all’epoca suonava così bene perché la si associava al sapere e all’idealismo. In nessun ambito questo fatto si è dimostrato così catastrofico per la cultura come in quello dell’istruzione. Il maestro, spogliato della sua credibilità e autorità, trasformato in molti casi, dal punto di vista progressista, nel rappresentante del potere repressivo, e quindi nel nemico da abbattere e contro il quale bisogna resistere per raggiungere la libertà e la dignità umana, non solo ha perso la fiducia e il rispetto dei suoi alunni, cosa che gli rende praticamente impossibile svolgere bene la propria funzione di educatore e divulgatore di valori e di conoscenze, ma anche quella dei padri di famiglia e dei filosofi rivoluzionari. Questi ultimi, infatti, come l’autore di Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, lo identificano con uno di quei sinistri strumenti, come le guardie carcerarie e gli psichiatri dei manicomi, di cui si avvale l’establishment per imbrigliare lo spirito critico e la sana ribellione di bambini e adolescenti.
Molti maestri, in totale buona fede, hanno preso per vera la degradante demonizzazione di loro stessi e hanno contribuito, gettando olio sulle fiamme, a peggiorare il pastrocchio facendo proprie alcune delle più assurde conseguenze dell’ideologia del maggio ’68 per quanto riguarda l’istruzione: considerare aberrante biasimare i cattivi studenti o fargli ripetere l’anno scolastico, e addirittura assegnare i voti e stabilire un ordine di priorità nel rendimento scolastico degli alunni, poiché operando simili distinzioni si diffonderebbe il funesto concetto di gerarchia, per non parlare dell’egoismo, dell’individualismo, della negazione dell’uguaglianza e del razzismo. È vero che questi estremi non hanno colpito tutti i settori della vita scolastica, ma una delle perverse conseguenze del trionfo delle idee – delle diatribe e fantasticherie – del maggio ’68 è stata, in seguito a questo evento, l’accentuazione brutale della divisione di classe a partire dalle aule scolastiche. L’istruzione pubblica è stata uno dei maggiori risultati della Francia democratica, repubblicana e laica. Nelle sue scuole e università, di altissimo livello, le ondate di studenti godevano di una parità di opportunità che correggeva, in ogni nuova generazione, le asimmetrie e i privilegi familiari e di classe, aprendo ai bambini e ai giovani degli ambienti più sfavoriti la strada verso il progresso, il successo professionale e il potere politico.
L’impoverimento e il disordine patiti dall’istruzione pubblica, sia in Francia che nel resto del mondo, ha fornito all’istruzione privata, che per motivi economici è accessibile a un’unica classe sociale ad alto reddito, e che ha risentito meno delle distruzione della presunta rivoluzione libertaria, un ruolo dominante nel forgiare le menti dei dirigenti politici, dei professionisti e degli uomini di cultura di oggi e degli anni a venire. Mai come adesso fu più valido il detto “nessuno sa per chi lavora”. Credendo di farlo per costruire un mondo veramente libero, senza repressione, alienazione e autoritarismo, i filosofi libertari come Michel Foucault, e i loro incoscienti discepoli, lavorarono molto opportunamente affinché, grazie alla grande rivoluzione educativa da loro sostenuta, i poveri continuassero a essere poveri, i ricchi ricchi, e la frusta restasse nelle mani degli inveterati detentori del potere.
Non è arbitrario citare il caso paradossale di Michel Foucault. Le sue intenzioni critiche erano serie, e il suo ideale libertario innegabile. Il rigetto che provava nei confronti della cultura occidentale – la sola, malgrado i limiti e le sregolatezze, ad aver fatto progredire la libertà, la democrazia e i diritti umani nel corso della storia – lo indusse a credere che fosse più facile ottenere l’emancipazione morale e politica lapidando i poliziotti, frequentando le saune per omosessuali di San Francisco o i club sadomasochisti di Parigi, piuttosto che nelle aule scolastiche o nei seggi elettorali. Inoltre, nella sua paranoica denuncia delle strategie di cui, dal suo punto di vista, si avvaleva l’autorità per sottomettere l’opinione pubblica ai suoi dettami, negò fino alla fine l’esistenza dell’AIDS – la malattia che lo uccise – quasi fosse un’ulteriore bugia dell’establishment e dei suoi scienziati per spaventare i cittadini costringendoli alla repressione sessuale.
Il caso di Foucault è paradigmatico: fu uno dei più intelligenti pensatori della sua generazione eppure, oltre alla serietà con cui aveva intrapreso le sue ricerche nei più svariati campi del sapere – la storia, la psichiatria, l’arte, la sociologia, l’erotismo e, ovviamente, la filosofia – fu sempre pervaso da una vocazione iconoclasta e provocatrice (nel suo primo saggio aveva cercato di dimostrare che “l’uomo non esiste”) che saltuariamente si trasformava in semplice impertinenza intellettuale, e in un gesto privo di qualsiasi serietà. Foucault non fu l’unico ad assumere un simile atteggiamento, fece suo un mandato generazionale destinato a marchiare a fuoco la cultura del suo tempo: una propensione al sofisma e all’astuzia intellettuale. Questa è un’altra delle cause della perdita di “autorità” dei pensatori del nostro tempo: non erano persone serie, giocavano con le idee e le teorie proprio come fanno i giocolieri con i bastoni e i foulard, sono divertenti, certo, e anche ci stupiscono, ma non ci convincono affatto.
Una delle prime studiose a rendersi conto della situazione e a criticarla aspramente fu Gertrude Himmelfarb che, in una straordinaria e polemica raccolta di saggi intitolata On Looking Into The Abyss (New York, Alfred A. Knopf Editore, 1994) si scagliò contro il postmodernismo e, soprattutto, contro lo strutturalismo di Michel Foucault e il decostruzionismo di Jacques Derrida e di Paul de Man; correnti di pensiero a suo giudizio frivole e superficiali rispetto alle scuole tradizionali di critica storico-letteraria.
Il libro della Himmelfarb è anche un omaggio a Lionel Trilling, autore di The Liberal Imagination: Essays on Literature and Society (1950) e di molti altri saggi sulla cultura che influenzarono ampiamente la vita intellettuale e accademica degli Stati Uniti e dell’Europa negli anni del dopoguerra e che oggi sono dimenticati da quasi tutti e letti da nessuno. Trilling non era un liberale in economia (in questo ambito sosteneva piuttosto le tesi socialdemocratiche), ma lo era in politica, per il modo caparbio in cui difendeva la virtù per lui suprema della tolleranza, e la legge come strumento di giustizia; la sua personalità, tuttavia, si distingueva soprattutto nel settore culturale, per la sua fede nelle idee come motore del progresso e il suo essere fermamente convinto che le grandi opere letterarie arricchiscono la vita, migliorano gli esseri umani e sono il sostentamento della civiltà.
Per un “postmoderno” queste credenze sono di un’ingenuità disarmante o di enorme stupidità, al punto che nessuno si prende nemmeno la briga di confutarle. La professoressa Himmelfarb ci dimostra come, nonostante i pochi anni che separano la generazione di Lionel Trilling da quelle di un Derrida o un Foucault, esiste tra di loro un vero e proprio abisso insormontabile. Il critico statunitense era convinto che la storia umana fosse una sola, che la conoscenza fosse un’impresa totalizzante, che il progresso fosse una realtà possibile e la letteratura un’attività dell’immaginazione radicata nella storia e in grado di riflettersi nella morale; le generazioni di Derrida e Foucault, invece, hanno relativizzato i concetti di verità e di valore fino a trasformarli in finzioni, hanno elevato ad assioma l’affermazione che tutte le culture si equivalgono e dissociato la letteratura dalla realtà, confinando la prima in un mondo autonomo di testi che rimandano ad altri testi senza mai avere alcun rapporto con l’esperienza vissuta.
Personalmente non condivido del tutto la svalutazione di Gertrude Himmelfarb nei confronti di Foucault. Infatti, malgrado tutti i sofismi e le esagerazioni che gli si possono rimproverare (ad esempio nelle sue teorie riguardanti le presunte “strutture di potere” implicite in ogni linguaggio – linguaggio che, secondo lui, trasmetterebbe sempre le parole e le idee atte a privilegiare i gruppi sociali egemonici -) bisogna riconoscere il contributo del filosofo francese nell’attribuire a determinate esperienze marginali ed eccentriche (della sessualità, della repressione sociale, della pazzia) un “diritto di cittadinanza” nella vita culturale. Detto questo, le critiche della Himmelfarb sulla rovina generata dalla decostruzione in ambito umanistico mi sembrano irrefutabili. I decostruzionisti, ad esempio, sono responsabili del fatto che, ai giorni nostri, sia quasi inconcepibile parlare di “scienze umanistiche”, da essi ritenute un sintomo di tarlatura intellettuale e di cecità scientifica.
Ogniqualvolta mi sono confrontato con la prosa oscurantista e le asfissianti analisi letterarie o filosofiche di Jacques Derrida, ho avuto la sensazione di perdere miseramente il mio tempo. Non perché ritengo che ogni saggio critico debba avere una sua utilità – mi basta che sia divertente o stimolante – bensì perché se la letteratura è veramente come suppone l’autore – una sequenza o arcipelago di “testi” autonomi, impermeabilizzati, privi di qualsiasi rapporto con la realtà esterna e quindi immuni da ogni tipo di valutazione e interrelazione con lo svolgersi della società e del comportamento individuale – che ragione c’è per “decostruirla”? A che scopo fare quei laboriosi sforzi di erudizione e di archeologia retorica, quelle ardue genealogie linguistiche, avvicinando o allontanando un testo dall’altro fino a costituire quelle artificiose decostruzioni intellettuali che sembrano dei vuoti animati? Esiste una totale incongruenza tra il lavoro critico, che afferma la sostanziale inattitudine della letteratura ad esercitare un’influenza sulla vita (o ad essere da essa influenzata) e a trasmettere verità di qualsiasi tipo associabili alla problematica umana, e il fatto che poi, tale analisi critica, si faccia affannosamente in quattro per anatomizzare – e spesso con ostentazioni intellettuali di insopportabile ambizione – quei monumenti di parole inutili.
Quando i teologi del Medio Evo discutevano sul sesso degli angeli non perdevano di certo il loro tempo: per quanto triviale potesse sembrare l’argomento, loro ritenevano che la questione fosse in qualche modo legata a tematiche molto serie quali la salvezza o la condanna eterna, ma cercare di demolire determinati oggetti verbali il cui assemblaggio è ritenuto, nel migliore dei casi, un’immensa nullità formale, una gratuità verbale e narcisista che non insegna nulla di nulla a parte se stessa e che manca di morale, significa trasformare la critica letteraria in una monotona masturbazione.
Non c’è da stupirsi se, in seguito all’influenza esercitata dalla decostruzione su tante università occidentali (e, in particolar modo, su quelle statunitensi) i dipartimenti di letteratura si stanno progressivamente svuotando di studenti (mentre al loro interno si infiltrano tanti turlupinatori). E non c’è da stupirsi nemmeno se il numero di lettori che si avvicinano alla critica letteraria pur essendo inesperti è sempre più ridotto (senza contare che i testi di critica bisogna andare a cercarli con la lente di ingrandimento nelle librerie dove generalmente li si trova, in qualche angolo cisposo, tra manuali di judo e karate od oroscopi cinesi).
In compenso, la generazione di Lionel Trilling riteneva che la critica letteraria avesse a che fare con i problemi fondamentali dell’esistenza umana, poiché vedeva nella letteratura non solo il testimone per eccellenza dei miti, le idee, le credenze e i sogni che permettono a una società di funzionare, ma anche delle segrete frustrazioni o stimoli che giustificano la condotta individuale. La fede di questa generazione nel potere della letteratura sulla vita era così grande che, in uno dei saggi di The Liberal Imagination (da cui Gertrude Himmelfarb ha tratto il titolo del suo libro), Trilling si chiedeva se il mero insegnamento della letteratura non fosse già di per sé un modo di snaturare e impoverire l’oggetto dello studio. Il suo ragionamento si poteva riassumere in un aneddoto: “Ho chiesto ai miei studenti di ‘guardare l’abisso’ (le opere di un Eliot, un Yeats, un Joyce o un Proust) e loro, obbedienti, lo hanno fatto. Hanno preso i loro appunti e poi hanno commentato: molto interessante, non le sembra?”. In altre parole, la scuola ibernava, rendeva superficiale e trasformava in conoscenza astratta la tragica e revulsiva umanità contenuta in quelle opere di fantasia, privandole della loro impressionante forza vitale e della loro capacità di rivoluzionare la vita del lettore. La professoressa Himmelfarb percepisce con malinconia tutta l’acqua che è passata sotto i ponti da quando Lionel Trilling manifestava i suoi scrupoli sul fatto che al suo convertirsi in materia di studio la letteratura venisse spogliata della propria anima e del suo potere, fino all’allegra leggerezza con cui un Paul de Man, vent’anni dopo, si sarebbe servito della critica letteraria per “decostruire” l’Olocausto, con un’operazione intellettuale non molto diversa da quella degli storici revisionisti impegnati a negare lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei.
Ho riletto diverse volte il saggio di Lionel Trilling sull’insegnamento della letteratura, soprattutto nel periodo in cui mi è capitato di fare l’insegnante. È vero che c’è qualcosa di illusorio e paradossale nel ridurre a un’esposizione pedagogica, dall’aspetto inevitabilmente schematico e impersonale – per non parlare dei compiti che, come se non bastasse, bisogna valutare – alcune delle opere di fantasia nate da esperienze profonde, e a volte laceranti, di veri e propri sacrifici umani il cui autentico valore non si può comprendere dalla tribuna di un auditorium ma solo attraverso la discreta e raccolta intimità della lettura, e la cui portata può essere effettivamente misurata solo attraverso gli effetti e le ripercussioni che generano nella vita privata del lettore.
A quanto ricordo, nessuno dei miei professori di letteratura mi ha mai fatto capire che un buon libro ci avvicina all’abisso dell’esperienza umana e a suoi eccitanti misteri. I critici letterari, in compenso, l’hanno fatto. Me ne viene in mente uno in particolare, appartenente alla stessa generazione di Lionel Trilling, che ebbe su di me lo stesso effetto esercitato da questi sulla professoressa Himmelfarb, trasmettendomi la sua convinzione che il meglio e il peggio dell’avventura umana passava sempre attraverso i libri e che questi ci aiutavano a vivere. Mi riferisco a Edmund Wilson, il cui splendido saggio sull’evoluzione delle idee e la letteratura socialista, da quando Jules Michelet scoprì l’opera di Vico fino all’arrivo di Lenin a San Pietroburgo, Fino alla stazione di Finlandia, mi capitò tra le mani durante la mia vita da studente. In quelle pagine, dallo stile nitido, pensare, immaginare e inventare ricorrendo alla penna era un modo stupendo di agire e di imprimere un segno nella storia; ogni capitolo dimostrava che le grandi agitazioni sociali o gli insignificanti destini individuali erano visceralmente legati all’impalpabile mondo delle idee e delle finzioni letterarie.
Edmund Wilson non si trovò ad affrontare il dilemma pedagogico di Lionel Trilling, per quanto riguarda la letteratura, poiché non volle mai essere professore universitario. In realtà, svolse un compito molto più ampio rispetto a quello delimitato dallo stretto ambito universitario. Gli articoli e le recensioni che scriveva venivano pubblicate su riviste e quotidiani (cosa che un critico “decostruzionista” avrebbe interpretato come forma estrema di degrado intellettuale) e alcuni dei suoi libri migliori – come il volume dedicato ai manoscritti del Mar Morto – erano in origine reportage per il New Yorker. Tuttavia, il fatto di scrivere per il grande pubblico profano non gli tolse rigore né audacia intellettuale, piuttosto lo costrinse a cercare di dimostrarsi sempre responsabile e intelligibile nel momento di mettersi all’opera.
Responsabilità e intelligibilità vanno di pari passo con un determinato modo di concepire la critica letteraria, con la convinzione che l’ambito letterario abbraccia tutta l’esperienza umana poiché la rispecchia e contribuisce in maniera determinante a plasmarla e che, per il medesimo principio, dovrebbe essere patrimonio di tutti, un’attività che si alimenta nella ricchezza comune della specie e a cui si può ricorrere incessantemente alla ricerca di ordine quando abbiamo la sensazione di sprofondare nel caos, di sollievo nei momenti di sconforto e di dubbi e incertezze quando la realtà che ci circonda sembra eccessivamente sicura e affidabile. All’opposto, se si pensa che la funzione della letteratura sia solo di contribuire all’arroganza retorica di un settore specializzato della conoscenza, e che i poemi, i romanzi, i drammi proliferano con il solo scopo di creare sregolatezze formali nel corpus linguistico, il critico, alla pari di tanti postmodernisti, può abbandonarsi impunemente ai piaceri dell’assurdità concettuale e la tenebra espressiva.
La cultura può essere sperimentazione e riflessione, pensiero e sogno, passione e poesia, e una revisione critica costante e profonda di tutte le certezze, convinzioni, teorie e credenze. Ma non può allontanarsi dalla vita reale, dalla vita autentica, dalla vita vissuta – che non è mai quella dei luoghi comuni, dell’artificio, del sofisma e della frivolezza – senza il rischio di disintegrarsi. Forse vi sembrerò pessimista, ma ritengo che, con un’irresponsabilità grande quanto la nostra incontenibile vocazione per il gioco e la diversione, abbiamo trasformato la cultura in uno di quei pomposi ma fragili castelli di sabbia che si disfano al primo colpo di vento.
Lima, aprile 2010
Traduzione di Annamaria Martinolli