Agatha Christie e i film gialli tratti dai suoi romanzi (fino agli anni Settanta)
Translation by Annamaria Martinolli
Il presente saggio breve è tratto da Literature/Film Quarterly, Vol. 3, No. 3 (SUMMER 1975), pp. 205-214, pubblicato dalla Salisbury University che ne detiene il copyright. L’autrice è Irene Kahn Atkins. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
Molto tempo fa, prima che le strade transcontinentali si trasformassero in superstrade, e prima che ogni motel lungo le citate strade entrasse a far parte di una conglomerata catena costituita da strutture fossilizzate nell’uniformità di un’opulenza fatta di materiale scadente, esistevano i piccoli motel – o forse si chiamavano motor courts? – molti dei quali offrivano agli ospiti servizi particolari: nella reception era collocata una pila di libri con le orecchie d’asino che gli ospiti erano liberi di portarsi in camera dietro tacito accordo che non se li sarebbero infilati nelle valigie per poi portarseli via ma che li avrebbero restituiti alla direzione nel momento di pagare il conto e andarsene. Fu in una di queste estemporanee biblioteche che, dopo aver rifiutato l’invito a leggere i western di Max Brand e Zane Grey, conobbi per la prima volta Agatha Christie e Hercule Poirot. In un’ora o poco più, mi ero unita alla schiera di fan dell’autrice.
Miss Christie e i suoi famosi investigatori – Poirot, Miss Marple, Tommy e Tuppence – hanno guidato per anni i lettori, con garbo ma anche con coinvolgimento, attraverso enigmatici labirinti di indizi falsi o autentici, in un mondo popolato da personaggi alternativamente simpatici, divertenti e spregevoli. Senza mai ricorrere a quelle immagini di sesso e violenza tanto sfruttate da molti autori di mystery del Novecento, la regina delle false piste ha catturato l’immaginazione dei lettori con storie di omicidi spaventosi ambientate in cittadine britanniche, eleganti hotel e soprattutto sui velocissimi treni europei.
La grande dame del mystery nonché vera Dame in virtù dell’Ordine dell’Impero Britannico, Agatha Christie ha scritto circa ottanta romanzi, quasi uno all’anno. Secondo una fascetta editoriale, le vendite complessive dei suoi libri ammonterebbero a quattrocento milioni di copie. I romanzi dell’autrice da cui sono state tratte pellicole cinematografiche, tuttavia, occuperebbero uno spazio sottilissimo tra due reggilibri trasparenti poiché, fino al 1974 – anno di uscita di Assassinio sull’Orient Express – i libri celebri su cui gli sceneggiatori si erano basati ammontavano a sette. Nessuna di queste trasposizioni ha suscitato particolare clamore, né per quanto riguarda gli incassi né per le critiche ricevute, e anzi molti di questi film sono stati proiettati solo nei cinema britannici.
Acclamato da molti critici, e con un buon risultato al boxoffice statunitense e britannico, Assassinio sull’Orient Express è riuscito a soddisfare il pubblico – non necessariamente formato dai lettori dei romanzi dell’autrice ma pur sempre costituito da un gruppo di spettatori ricettivi ed entusiasti – . Comunque di sicuro non ci sono state le manifestazioni di vivo dissenso che recentemente hanno diviso in due fazioni i fan di Raymond Chandler e di Robert Altman riguardo al Lungo addio; senza contare che, per la prima volta, cinquantaquattro anni dopo il suo debutto nel romanzo Poirot a Styles Court, Hercule Poirot ha ottenuto il giusto riconoscimento come investigatore cinematografico.
Testimone d’accusa
Dame Agatha è nota soprattutto per i romanzi gialli, ma nelle rare apparizioni cinematografiche delle sue opere i maggiori successi li hanno comunque conseguiti i film tratti dai suoi scritti di altro genere. Se esiste una ragione ben precisa per cui i suoi gialli vengono spesso trascurati in ambito cinematografico non la si può di certo ricercare nella mancanza di interesse da parte dei registi o degli appassionati di cinema per questo genere specifico, o nel poco materiale letterario disponibile. Fin dall’uscita del cortometraggio muto Sherlock Holmes Baffled, nel 1903, e passando per Charlie Chan e Philo Vance per poi arrivare a Philip Marlowe e James Bond, il genere giallo ha conosciuto un progressivo successo, eppure, negli anni passati, il film più importante tratto da un’opera di Agatha Christie è stato Testimone d’accusa (1957), per la regia di Billy Wilder, basato su un suo testo teatrale molto rappresentato e con un cast che non comprende la classica figura dell’investigatore. Nella pellicola, Wilder si prende alcune libertà drammaturgiche associando al suo classico umorismo ironico scene apertamente provocatorie e trasformando così Testimone d’accusa in un vero e proprio tour de force per i suoi interpreti, soprattutto Marlene Dietrich.
Il film, la regia di Billy Wilder e le interpretazioni come attore protagonista e attrice non protagonista di Charles Laughton e Elsa Lanchester hanno ricevuto una nomination agli Oscar nel 1958, ma a trionfare è stata soprattutto Agatha Christie, per le recensioni, il successo al boxoffice e anche dal punto di vista teatrale, visto che la pièce è stata una delle più rappresentate sia a New York che a Londra.
Dieci piccoli indiani
Dieci piccoli indiani, girato nel 1945 e oggetto di un remake nel 1966, si basava sull’omonimo romanzo dell’autrice che non prevedeva alcun investigatore dal comportamento eroico (il titolo originale, Ten Little Niggers, la dice lunga sui cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi trenta o quarant’anni). La vicenda narra di un gruppo di dieci persone invitate su un’isola remota che vengono uccise seguendo le strofe di una celebre filastrocca per bambini. Il romanzo forniva come unica soluzione all’intreccio la confessione dell’assassino. La prima versione cinematografica, diretta da René Clair, evidenzia la sua abilità nel sostenere la suspense, senza per questo sacrificare il suo evidente tocco umoristico, e nell’intrattenere il pubblico anticipando il pericolo anziché mostrare scene cruente – che poi è esattamente lo stesso atteggiamento assunto da Agatha Christie nella sua prosa –. La seconda versione, invece, diretta da George Pollock, non riesce a competere con i migliori momenti di suspense creati dal grande regista e, alla sua uscita, ricevette un’accoglienza piuttosto fredda da parte del pubblico. Tuttavia, bisogna dire che un elemento innovativo c’è: l’inclusione di tre minuti in cui si cerca di capire chi è stato e durante i quali ogni indizio viene ripetuto sullo schermo per invitare gli spettatori a indovinare l’identità del colpevole prima che venga svelata la conclusione.
L’ora del supplizio e L’affascinante straniero
Un’altra opera senza investigatore di Agatha Christie, in questo caso un racconto breve, trovò la strada per il cinema in ben due occasioni, nel 1937 e nel 1947, con il titolo Love from a Stranger (in italiano la pellicola del 1937 è intitolata L’ora del supplizio, mentre quella del 1947 L’affascinante straniero. N.d.T.). Entrambe le pellicole erano di genere thriller e un critico del Film Daily le paragonò allo stile melodrammatico dell’opera teatrale, tratta da un fatto vero, Maria Marten; or, The Murder in the Old Red Barn, anche se in realtà non c’era alcun mistero da svelare. Gli spettatori sapevano fin dall’inizio che il marito apparentemente devoto di Ann Harding (e in seguito Sylvia Sidney) era un folle aspirante omicida. Alcune scene suscitarono ilarità e in certi casi il cattivo della storia fu pure fischiato.
La tela del ragno, uscito in Inghilterra nel 1961, vedeva Glynnis Johns nel ruolo di un’altra moglie in preda al terrore. Anche in questo caso, la fonte non era un romanzo di Agatha Christie ma una sua pièce teatrale.
Miss Marple
Tra le pellicole aventi per protagonisti i famosi investigatori dei romanzi dell’autrice, solo la capricciosa Miss Jane Marple sembra aver trovato un pubblico di nicchia ben disposto nei confronti del suo intrigante caratterino. Negli anni Sessanta, Margaret Rutherford, un’attrice dal fisico molto più robusto rispetto alla vecchietta descritta nei libri, riuscì a catturare lo spirito del personaggio in quattro film che conobbero larga diffusione in Inghilterra, una diffusione più limitata negli Stati Uniti e un’abbastanza buona distribuzione televisiva nella programmazione notturna del paese. Dopo l’uscita della prima pellicola della serie, Assassinio sul treno, Miss Rutherford fu descritta da un critico del New York Times (January 8, 1962) come un’attrice “con una naturale predisposizione per quel tipo di indagini sobrie e dignitose che avrebbero fatto onore al grande Sherlock Holmes”, tuttavia, all’uscita delle pellicole successive, gli elogi nei confronti della sua prestazione si ridussero progressivamente. Malgrado i numerosi romanzi aventi per protagonista Miss Marple, i produttori dell’ultimo film della serie interpretata da Margaret Rutherford decisero di basarlo su una sceneggiatura originale e di non prendere in considerazione le opere di Agatha Christie. Il risultato ottenuto dimostrò che non valeva la pena operare una simile sostituzione.
Tommy e Tuppence
Tommy e Tuppence Beresford, la venerabile coppia che ha riscosso notevole successo dal suo non superare mai i cinquant’anni d’età per un buon cinquantennio, e che ha risolto una ventina di misteri di Agatha Christie, sono stati i protagonisti di un unico film, Die Abenteurer G.m.b.H. (Adventurers, Inc.) basato sul romanzo Avversario segreto e prodotto in Germania nel 1928. I loro nomi diventarono Lucienne e Pierre e anche la storia subì delle modifiche, anche se il loro destino non seguì quello del Sergente Cuff, eliminato completamente dalla versione cinematografica di The Moonstone (1915) tratta dal romanzo di Wilkie Collins.
Hercule Poirot
Malgrado sia comparso solo in alcune pellicole di produzione britannica, Hercule Poirot non se l’è cavata molto bene sul grande schermo. Nel volume di William K. Everson, The Detective in Film (Citadel Press, 1972) è ben evidente la cultura dell’autore in materia, ragion per cui si accetta volentieri la sua affermazione sul fatto che Austin Trevor ha ben impersonato Poirot in Alibi (1931), Black coffee (1931) e Lord Edgware Dies (1934) – pellicole poco distribuite negli Stati Uniti – e che l’attore ha un aspetto e un’età che ricordano da vicino l’investigatore belga. Tuttavia, quando Tony Randall interpretò il personaggio in Poirot e il caso Amanda, il film fu visto da un pubblico americano piuttosto vasto deludendo sia per il contenuto che per la recitazione. Da un lato, Tony Randall era ricoperto da una dose eccessiva di trucco che non gli rendeva giustizia, dall’altro, la sua interpretazione era decisamente sotto tono, soprattutto per quella parte di pubblico che si aspettava di vederlo in uno dei suoi classici personaggi da sophisticated comedy. Hercule Poirot, in compenso, non risultava più essere l’astuto manipolatore di “celluline grigie” creato dall’autrice ma un inetto e imbranato clown. Quando Randall, interpretando Poirot, si autodefinisce un impiccione belga non perde solo la stima degli appassionati di Agatha Christie, che sanno bene che non avrebbe mai detto una cosa del genere, ma anche del resto degli spettatori. E così al regista Frank Tashlin non furono attribuiti gli stessi applausi che gli ammiratori di Robert Altman riservarono a lui o agli interpreti de Il lungo addio.
Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet: analisi dettagliata
Quasi nel tentativo di compensare il maltrattamento e l’indifferenza di cui è stata oggetto l’opera della Christie nella pellicola di Tashlin, Sidney Lumet e lo sceneggiatore Paul Dehn hanno costruito, in Assassinio sull’Orient Express, uno spettacolo elegante interpretato da un cast ricco di star e hanno anche riportato in auge quello che William K. Everson definisce il mistero civilizzato, un sottogenere della cui scomparsa i patiti di cinema come lui risentivano da tempo. Assassinio sull’Orient Express, seguendo, appunto, la definizione di Everson, è un film civilizzato: una pellicola a basso tasso di violenza, totalmente priva di scene di sesso esplicite e con un linguaggio che rispetta appieno le regole del Codice Hays – un film sofisticato dove l’unica domanda di primaria importanza è: “Chi è stato?” – .
Assassinio sull’Orient Express è anche un film un po’ antiquato, in parte perché i dialoghi e il ritmo tranquillo hanno la meglio sull’azione e sul montaggio ellittico, in parte per la connotazione che il termine antiquato ha recentemente acquisito, ovvero più solido, più concreto e congegnato con maggiore cura di qualsiasi altro prodotto scadente odierno. Anche il titolo, se vogliamo, suona un po’ datato. Nel già citato volume The Detective in Film, Everson asserisce che fino agli anni Quaranta del Novecento il termine assassinio era molto in voga nei titoli dei film di questo tipo; in seguito i termini predominanti sono stati: strada, notte, città.
Titoli di testa
I titoli di testa del nuovo film Poirot-Christie, con quel lettering art déco e i bordi ornati da nastri color malva, ben si prestano a introdurre il titolo della pellicola e i nomi degli attori principali. La musica che li accompagna lascia presagire buone cose nella colonna sonora di Richard Rodney Bennett. Due sono i temi principali che si alternano durante l’apparizione dei nomi degli attori: il primo è un pezzo di romantica presunzione con un assordante assolo di pianoforte che ricorda Johnny Green prima che diventasse John Green, o Eddie Duchin, o forse la colonna sonora di Four Wives con la Symphonie Moderne di Max Steiner; il secondo è un agitato misterioso che fa da sottofondo al più sinistro degli omicidi.
Prologo
Il romanzo di Agatha Christie, sui tre giorni ricchi di suspense a bordo del più elegante treno d’Europa, inizia come molti altri suoi libri e cioè focalizzandosi su Hercule Poirot e il suo partire per un viaggio facendosi un’idea dei suoi compagni d’avventura prima ancora che venga commesso un delitto.
La struttura del film è diversa. Quello che nel libro è un flashback molto breve si converte nel prologo: una didascalia mette in evidenza luogo e tempo, Long Island, 1930. Una serie di rapide inquadrature, che tendono verso l’indaco e il seppia attraverso un procedimento di flashing, danno alla pellicola un aspetto e un tono da archivio storico. Mentre le scene vanno in dissolvenza per lasciare spazio a foto di giornale sovrastate da titoloni, lo spettatore ha scoperto tutto il peggio possibile riguardo al famoso caso del rapimento della piccola Armstrong, una tragedia che riprende gli orrori del vero caso Lindbergh del 1932.
Il prologo innovativo ha uno scopo ben preciso, così come i successivi riferimenti al caso Armstrong e alle tragiche conseguenze che ne sono derivate, la morte di altre quattro persone. Quando si scopre che l’uomo assassinato, Richard Widmark nel ruolo di Ratchett, alias Cassetti, era il responsabile del rapimento, non si prova alcuna commiserazione per lui e la risoluzione dell’enigmatico caso è libera di procedere come un esercizio di ginnastica mentale anziché come un tentativo di far rispettare l’ordine e la legalità. Anche il finale del film, una sorta di parabola che dimostra che “il crimine paga”, riflette il medesimo condizionamento mentale che gli spettatori hanno subito a priori.
Struttura del film
Un’altra didascalia, “Turchia, Asia, cinque anni dopo”, determina l’inizio effettivo del film e ci mostra una lancia che si prepara ad attraversare il Bosforo in un tramonto arancione fiammante, quasi ormai consumato, e grigio affumicato. Tra i passeggeri c’è un buffo ometto con i baffi arricciati e i capelli chiaramente impomatati. È senza dubbio Hercule Poirot; lo si riconoscerebbe ovunque. Ma la domanda è: “È l’attore Albert Finney?”. Perché Finney assume le fattezze, l’accento e le movenze di Poirot in modo così convincente e mantenendole così bene per tutto l’arco del film che a stento si riconosce in lui lo sgargiante Tom Jones o l’altro suo ruolo recente, l’investigatore Gumshoe nel film Sequestro pericoloso.
In seguito, il regista Sidney Lumet introduce uno dopo l’altro gli altri membri del cast, inizialmente come passeggeri dell’Orient Express e poi come sospettati di omicidio. Poirot impara a conoscere alcuni di loro nella sala da pranzo di un hotel di Istanbul mentre un trio di corde e fisarmonica, con fez in testa e pantaloni sformati, suona On the Good Ship Lollipop e Red Sails in the Sunset.
Il cast è effettivamente ricco di star: Lauren Bacall, Ingrid Bergman, Vanessa Redgrave, Sean Connery, Anthony Perkins, Sir John Gielgud e molti altri. L’aspetto positivo è che non si limitano a interpretare un semplice cameo allo scopo di attirare il pubblico o di favorire gli incassi della pellicola. Ognuno di loro aggiunge una nuova sfaccettatura alla caratterizzazione dei singoli personaggi concepiti da Agatha Christie.
Interpreti
Alcuni dei ruoli possono essere interpretati come inside jokes perché creano dei contrasti o fanno piccoli riferimenti alle parti che gli attori ricoprivano in pellicole precedenti. Ne è un ottimo esempio Anthony Perkins, il cui irrequieto e nervoso Hector, segretario dell’uomo assassinato, richiama alla mente dello spettatore il folle voyeur di Psycho facendo di lui uno dei possibili sospettati di Assassinio sull’Orient Express.
Sean Connery, il brioso James Bond che tutti conoscono, interpreta il borioso e scontroso Colonnello Arbuthnott, in congedo dall’India. Lauren Bacall, che per molti spettatori resterà per sempre la “compagna di Humprey Bogart”, languidamente in attesa di un suo fischio, è l’intraprendente cinquantenne Signora Hubbard impegnata a spettegolare all’infinito sul suo primo – o forse sul secondo? – marito.
Sir John Gielgud, nel ruolo del maggiordomo, è più regale di qualsiasi altro monarca shakespeariano abbia mai interpretato sul palcoscenico e sul grande schermo. Ma l’attrice che si distingue veramente dal gruppo è Ingrid Bergman, che Hollywood ha in un primo momento apprezzato per il suo dimostrarsi casta e pura quasi quanto i personaggi da lei interpretati, Giovanna d’Arco e la suora in Le campane di Santa Maria, e in seguito ostracizzato per essere “fuggita” con Roberto Rossellini. In Assassinio sull’Orient Express è una timida e pia missionaria, scandalizzata dagli eventi che si verificano sul treno. Allo stesso tempo, Ingrid Berman riesce a trasmettere agli spettatori l’idea che probabilmente la sua Signorina Ohlsson non è la donna sussiegosa e devota che dà l’impressione di essere.
Accenti stranieri
Oltre alle succitate caratterizzazioni dei personaggi, tra gli attori vi è un interessante contrappunto di accenti stranieri. Molti di loro, nella vita vera, sono inglesi o americani; l’accento di Albert Finney è, indubbiamente, belga, anche se, come dice uno degli attori minori: “Pensavo fosse francese”. La contessa russa interpretata da Wendy Hiller ha giustamente una pronuncia gutturale; l’uomo d’affari italiano di Martin Balsam è volubile quanto basta; mentre Michael York può benissimo essere scambiato per un ungherese che ha vissuto a Washington per un po’. Rachel Roberts è una Brunilde degli anni Trenta i cui capelli biondi tirati all’indietro ben si adattano al tono di voce. Ma ancora una volta è Ingrid Bergman a spiccare su tutti. Le sue suadenti modulazioni svedesi lasciano il passo a un accento di cui attori come John Qualen o El Brendel sarebbero stati orgogliosi: la voce di una donna ignorante e alquanto stolta. È come se Katharine Hepburn avesse barattato il suo accento del New England con quello di Marjorie Main. È un’impresa che senza dubbio un’attrice del calibro di Katharine Hepburn riuscirebbe a compiere, ma è molto divertente vedere Ingrid Bergman svolgere davvero il compito.
L’Orient Express
Il vero protagonista del film, tuttavia, è il treno. Quel treno che Sidney Lumet è riuscito a catturare in tutto il suo delicato splendore. Inizialmente lo si vede fermo in stazione, intento a fischiare con impazienza mentre il regista sembra soffermarsi sull’abbondanza di cibo che viene caricato a bordo tanto quanto si sofferma sull’introduzione dei personaggi. Una lentezza tanto appassionata si può facilmente perdonare, anche perché il cibo è il vero simbolo dell’opulenza e dell’eleganza dei viaggi europei prebellici, così come il vagone ristorante è il fulcro dei contatti sociali. Nella pellicola è proprio il vagone ristorante a fungere da trampolino per l’interazione della trama; in un primo tempo con le conversazioni a gruppetti dei vari passeggeri, in seguito con l’incontro tra Poirot e la futura vittima Ratchett.
Mentre il fanale del treno lampeggia, una “frecciata” musicale annuncia la partenza del mezzo. Dopodiché esso romba maestosamente in avanti accompagnato da un valzer orchestrato in uno stile simile a quello del Cavaliere della rosa di Richard Strauss mentre i fischi e gli sbuffi che scandiscono le inquadrature dell’Orient Express nel prosieguo della pellicola mantengono un tono inalterato. In molte scene, la musica, più che qualche effetto sonoro, trasmette l’idea di un brusco movimento in avanti. Forse è l’influenza di Stanley Kubrick a indurre ad associare la locomozione meccanica ai valzer, o forse si tratta solo di un omaggio alla Mitteleuropa dei tempi d’oro. Qualunque sia il motivo, le inquadrature del treno dapprima lanciato lungo i passi montuosi, poi completamente fermo e infine di nuovo in moto a tempo di valzer, creano una magnifica controscena rispetto agli eventi che si consumano all’interno delle carrozze: letteralmente un Ballet mécanique concepito per la musica tardo-romantica.
Sidney Lumet e il cineoperatore Geoffrey Unsworth riescono a catturare anche quel senso di reclusione che si respira all’interno del treno: i passeggeri che si schivano l’un l’altro lungo il corridoio per poter passare; gli ambienti molto stretti anche negli scompartimenti di prima classe; lo spazio ridotto tra le cuccette superiori e inferiori; le cuccette stesse, troppo piccole per i loro robusti occupanti.
Il ruolo dei dialoghi
Lo stato di reclusione restringe il campo dei sospettati nel gioco dell’individuazione del colpevole. Poirot annuncia che l’assassinio dev’essere stato commesso da uno degli occupanti del treno e inizia a studiare lo schema della disposizione delle cuccette. Infatti, poiché l’interrogativo fondamentale a cui il film cerca di rispondere è: “Chi è stato?”, Poirot tenta di risolvere il caso, con il supporto di regista e sceneggiatore, con il classico procedimento deduttivo seguito dall’investigatore nei romanzi di Agatha Christie: la valutazione degli indizi; l’interrogatorio, individuale, dei sospettati; e infine il confronto con tutte le persone coinvolte durante il quale egli trae le sue conclusioni e svela il colpevole.
Una struttura di questo tipo determina un bel po’ di chiacchiere. In un libro ciò può essere un vantaggio perché i dialoghi e le ricostruzioni compiute da Poirot hanno sempre divertito molto i lettori dei romanzi della Christie. Sul grande schermo, invece, un eccessivo utilizzo del parlato può rivelarsi fatale. Durante una serie di interviste da me condotte con alcuni tecnici del suono veterani che hanno lavorato a Hollywood è emerso che nei primi anni del cinema sonoro i registi e gli scrittori avevano una paura terribile del silenzio. Di conseguenza, nelle pellicole girate nel 1929 e nel 1930 gli attori parlavano, parlavano e ancora parlavano. Assassinio sull’Orient Express soffre, forse, della stessa propensione alla chiacchiera. Questa caratteristica è stato il fattore che ha determinato diverse critiche nei confronti del film. Tuttavia, i molti dialoghi non causano noia e anzi mantengono alto il livello di interesse e divertimento poiché, essendo tratti per la maggior parte dal romanzo originale, essi stessi contribuiscono alla risoluzione del mistero con spensieratezza e semplicità.
Per i nostalgici va detto che la scena del confronto ha il confortevole tono e aspetto del climax di un film mystery civilizzato anni Trenta. Il confronto, inoltre, rafforza ulteriormente la struttura dell’intreccio. Prima di questa scena, in cui vengono svelati i rapporti esistenti tra i vari personaggi, Assassinio sull’Orient Express sembra costruito sullo stile del film Grand Hotel, con un gruppo di estranei che si ritrovano tutti assieme seguendo i capricciosi ordini dell’autore. Negli ultimi tempi questa formula è stata fin troppo abusata nell’attuale pletora dei film catastrofici. Di conseguenza è gratificante scoprire che non solo tutti i passeggeri del treno e anche lo steward si conoscevano già in precedenza, ma che addirittura alcuni di loro sono imparentati.
Conclusioni
In uno dei comunicati rilasciati dall’ufficio pubblicità della Paramount Studio, in cui si afferma che la pellicola è uscita quarant’anni dopo la pubblicazione del libro, è specificato che Agatha Christie ha atteso così a lungo per cedere i diritti perché non aveva trovato un regista a cui affidare la storia. Secondo il comunicato: “È stata l’estrema fedeltà letteraria dimostrata dai produttori John Brabourne e Richard Goodwin nel precedente adattamento di un grande classico quale I racconti di Natale di Beatrix Potter a convincere Dame Agatha Christie a dare il nullaosta per il progetto”. È probabile che le cose siano andate davvero così, e non vi è dubbio alcuno che Brabourne e Goodwin sono rimasti fedeli allo spirito originale del romanzo giallo dell’autrice. Tuttavia, bisogna ammettere che fino a poco tempo fa l’happy end di Assassinio sull’Orient Express, con tutte le persone coinvolte nell’omicidio che fanno un brindisi, sarebbe stato inaccettabile per i codici di produzione in vigore. Mentre vedevo questa scena, per una qualche ragione, mi è tornata alla mente una confusa immagine di Elliott Gould nel Lungo addio intento a ballare estasiato lungo la strada dopo essere riuscito a uccidere l’uomo che ha causato tanta sofferenza a lui e al suo gatto.
Viene anche da chiedersi se il successo di Assassinio sull’Orient Express dipenda dal lungo lasso di tempo trascorso per realizzare la trasposizione cinematografica del romanzo oppure se tutto dipenda dal fatto che la sua uscita abbia felicemente soddisfatto i gusti e le sensazioni del pubblico degli anni Settanta. Non è mio obiettivo svilire il film giudicandolo solo un raffinato divertimento, ma onestamente credo che il periodo storico lo aiuti molto. Cavalcando l’onda, ancora dominante, delle pellicole nostalgiche che, quasi in ogni decennio del recente passato, ha dato una spinta decisiva ai film prodotti, Assassinio sull’Orient Express rispecchia il periodo migliore per una retrospettiva cinematografica, quei primi anni Trenta del Novecento ultima roccaforte di ingenuo ottimismo prima della Seconda guerra mondiale. Era un’epoca in cui non tutto il male veniva per nuocere e questo male non aveva di sicuro le fattezze della bomba atomica; un’epoca in cui andare al cinema offriva non solo la possibilità di seguire le deduzioni ma di ammirare anche l’equipaggiamento degli opulenti Nick Charles e Philo Vance, il cui stile di vita era il vero obiettivo di molti spettatori presenti in sala. Oggi, negli Stati Uniti, a causa della depressione in cui siamo immersi, – e non importa se i nomi con cui la si può definire sono molteplici – gli spettatori cinematografici cercano il medesimo tipo di diversione di cui sentivano il bisogno negli anni Trenta, e cioè quella divertente fuga dalla realtà che Agatha Christie sapeva dare ai lettori dei suoi romanzi.