Tonya di Craig Gillespie
Traduzione a cura di Annamaria Martinolli
Il presente articolo è stato pubblicato su Revue 24 Images il 18 gennaio 2018. L’autore è Elijah Baron. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.
Sarebbe facile vedere in Tonya solo una pallida imitazione di Quei bravi ragazzi. In effetti, il film violento e divertente di Craig Gillespie ha una trama che si snoda su più decenni, è narrato da antieroi e trabocca di carrellate acrobatiche accompagnate da una colonna sonora incredibilmente ricca. Indubbiamente, nel suo ricercare un punto di accesso che permettesse di esplorare le trappole e i limiti del sogno americano, il regista australiano ha preferito percorrere sentieri già battuti. Tuttavia, il film va ben oltre il semplice esercizio di stile referenziale grazie a un adeguato spirito di osservazione e all’interpretazione magistrale di Margot Robbie, nel ruolo del titolo.
La storia vera di Tonya Harding, campionessa di pattinaggio artistico squalificata a vita per il suo presunto coinvolgimento in un complotto contro la rivale, va a toccare una corda sensibile dell’attuale società americana. Il grande pregio del film è di focalizzarsi innanzitutto sul ritratto psicologico e sociale di questa donna che un tempo era oggetto di disprezzo e adesso attira la simpatia di una parte del pubblico. Quando la incontriamo per la prima volta, ha tre anni e già i pattini ai piedi; quando ci congediamo da lei, ne ha più di quaranta e ci scruta con uno sguardo accusatore, cinico e amaro. Non viene mai glorificata, e la sua implicazione nel crimine di cui la si accusa, anche se messa in discussione, non viene comunque mai negata. Tuttavia, lontano dal ghiaccio della pista, non la vediamo mai avere il controllo della situazione. Senza rendersene pienamente conto, è una figura passiva il cui percorso è stato in gran parte influenzato dallo status sociale e dal condizionamento alla violenza.
Vittima di abusi psichici e psicologici, prima da parte della madre e poi del primo marito, Tonya ha una percezione del mondo che passa attraverso il prisma della violenza. L’idea è veicolata da una varietà di registri: la storia ha soprattutto un’impostazione comica – il che può risultare scioccante durante le scene più difficili – ma la scelta è giustificata dalla normalità degli avvenimenti che sopraggiungono nella quotidianità della protagonista. Il punto di vista non è però sempre il suo; anche altri personaggi forniscono una versione dei fatti, e le loro testimonianze si fanno incalzanti, a volte convertendosi in dialoghi diretti con la telecamera. Quando la madre scompare brevemente dalla narrazione, ricompare subito per lamentarsene. Il fatto che il personaggio di Tonya possa perdere il controllo della trama di un film che, fin dal titolo, rivela uno scopo autobiografico, rafforza l’idea che il suo stesso destino le stia sfuggendo di mano.
A questo vanno aggiunte le implicazioni legate al suo essere famosa, che contribuiscono ulteriormente a un simile spossessamento. L’immagine di Tonya Harding, così come è concepita ancora oggi nella cultura popolare, è una costruzione mediatica. Di conseguenza, è logico che tra le voci narranti del film figuri anche un giornalista. Quando scoppia lo scandalo, Tonya diventa una delle prime prede delle reti all-news nate all’epoca, spingendo i media tradizionali verso un tipo di sensazionalismo che fino ad allora era riservato ai tabloid. Per soddisfare i bisogni di un pubblico assetato di spettacolo, i media trasformano la vita della giovane in un oggetto di consumo. Le sfumature svaniscono e, con esse, anche qualsiasi parvenza di obiettività (“Ognuno ha la sua verità”, dichiara nel film) a mano a mano che le acclamazioni cedono il passo agli sberleffi e alle ingiurie. E questo ciclo avanza a velocità impressionante, la stampa sbucata dal nulla un giorno sparisce come un miraggio per andare a occuparsi di altri abomini.
Tonya rientra nell’ambito di quei progetti recenti (citiamo ad esempio O.J.:Made in America) che si impadroniscono di un grosso scandalo degli anni Novanta per dissezionarlo e scoprire cosa si nasconde dietro il circo mediatico e il melodramma. Spesso, quella che ne esce riflessa è l’essenza stessa dell’America, o uno dei suoi innumerevoli volti. Tonya, appartenente alla classe operaia, non corrisponde affatto all’immagine che il Paese cerca di dare di se stesso. Nata in una famiglia povera che ostenta volgarità, e vestita con abiti di fattura casalinga, rappresenta quell’America profonda che, all’epoca, si cercava in tutti i modi di tenere nascosta. All’improvviso, nonostante il suo notevole talento, Tonya si viene a trovare in una posizione sfavorevole rispetto alla rivale, Nancy Kerrigan, anch’essa di origini modeste ma disposta a conformarsi agli altri.
Il carattere illusorio del sogno americano che promette pari opportunità viene dunque svelato, e l’umiliazione che ne deriva per Tonya è sintomatica degli eventi che in seguito porteranno all’elezione di Donald Trump, anch’egli ex star dei reality show; cosa che, in un simile contesto, va ben oltre la semplice coincidenza. Tonya sembra rivendicare quell’etichetta di redneck e white trash che le viene affibbiata fin dall’inizio, così come l’etichetta “deplorevole” sarà in seguito rivendicata dagli elettori di Trump, in risposta al commento condiscendente di Hillary Clinton. Senza dare adito a polemiche, Tonya s’interroga sulla lotta di classe che vede i white trash opporsi alle classi dirigenti, che nel film sono impersonate dai membri della giuria sportiva, che hanno contribuito all’emarginazione, se non addirittura alla radicalizzazione, di una parte della società. La lotta si combatte anche sul terreno della cultura, e se la vittoria di Trump non ha portato all’accessione dei suoi elettori alla cultura di massa, forse ha involontariamente contribuito all’emergere di ritratti sociali scrupolosi sempre più frequenti nel cinema popolare. Solo quest’anno, a parte Tonya, sono usciti nelle sale Un sogno chiamato Florida e Tre manifesti a Ebbing, Missouri.