Claudio Magris: Come una bottiglia adagiata su un fiume
Traduzione a cura di Annamaria Martinolli
La presente intervista è tratta da Le Magazine Littéraire, Sophia Publications, Paris, N. 518, aprile 2012, pagg. 90-94. L’autrice è Aliette Armel. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli. Il copyright appartiene a Le Magazine Littéraire, tutti i diritti riservati.
“L’anno prossimo, compirò settantatre anni”, annunciava Claudio Magris il 16 dicembre 2011, nell’ufficio delle Edizioni Gallimard dove ha ricevuto i giornalisti del Magazine Littéraire in occasione della traduzione francese di una nuova raccolta di alcuni suoi articoli intitolata Alfabeti. Questo comunicare la propria età giocando d’anticipo sul giorno del compleanno era una pratica molto comune per le generazioni contemporanee di un mondo che, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, si è precipitato verso il disastro: gli scrittori europei ne sono la testimonianza, soprattutto quelli della Mitteleuropa. Studiarli è sempre stato il fulcro dell’insegnamento di Claudio Magris, a Torino, a Trieste e in giro per il mondo, dove egli si reca su invito delle università più prestigiose. La cultura dell’Europa centrale è il riferimento permanente della sua opera, che si declina sottoforma di articoli, saggi, romanzi, testi teatrali, ma anche libri inclassificabili, colti, che coinvolgono il punto di vista del loro autore e la sua vita, e che si rivelano di un’ampiezza rara, come il fiume di cui Danubio segue il corso, o come l’Adriatico di cui Microcosmi esplora le isole, le lagune, le città e le foreste che ne costeggiano i lidi.
Quest’uomo affaccendato attribuisce la medesima importanza al suo lavoro, fondato su un’insaziabile necessità di compilazione che ne sostiene l’inventiva, alla vita familiare, agli incontri amichevoli e alla comunicazione in tutte le sue forme, prendendosi il tempo di corredare il suo discorso di racconti. Al di là della diversità e dell’inventiva delle forme, la sua opera possiede una forte coerenza mossa dalla volontà di raggiungere, attraverso i luoghi e i loro abitanti, portatori di memoria e di miti, una comprensione dell’Europa di ieri che consente di “rendere indubbia la presenza del mondo” di oggi; mondo nel quale Claudio Magris è profondamente radicato.
Aliette Armel (AA): Siete nato a Trieste, antico porto dell’Impero austroungarico, giusto prima della Seconda Guerra Mondiale. In che modo questo ha influenzato il vostro lavoro?
Claudio Magris (CM): Ho due figli… e due città natali. Ho lasciato Trieste a diciotto anni per studiare a Torino, l’altra città della mia vita. Sono stato un lettore precoce: a quattordici anni avevo letto Tolstoj, Dostoevskij e Goethe, ma non gli autori triestini. È stato proprio a Torino che ho cominciato a leggerli. Allora ho acquisito la consapevolezza di quanto avevo vissuto inconsciamente a Trieste: il ruolo della comunità ebraica che per me evocava semplicemente gli amici di famiglia che venivano a giocare a carte a casa nostra; l’importanza del Carso, non solo come luogo in cui andare a passeggio ma come punto di incontro con il mondo sloveno, che a Trieste ricopre un ruolo notevole. Mi sono reso conto che Trieste non è solo una città italiana, ma il crogiolo italiano di diverse culture. Bisogna uscire dalla propria famiglia per amarla davvero. Lasciare Trieste mi ha permesso di prendere in considerazione tutte queste dimensioni. Tuttavia, io non sono stato costretto ad abbandonarla come gli intellettuali della generazione precedente diventati adulti mentre il futuro del “territorio libero” – status provvisorio della città – restava incerto. Trieste sarebbe diventata italiana o jugoslava? Sarebbe appartenuta all’occidente o all’impero di Stalin? Non sono mai riusciti a perdonare a Trieste questa necessità di abbandonarla, e hanno sempre intrattenuto con la città un legame edipico. Io, invece, ho un rapporto libero con Trieste. Molto intenso, ma senza complessi. Come qualcuno che ama la madre senza esserne ossessionato.
AA: Quest’obbligo di abbandonare Trieste non nasce, forse, anche da quell’impossibilità di agire che spesso caratterizza i triestini?
CM: Trieste ha conosciuto un periodo molto fiorente quando era l’unico porto dell’Impero. In seguito, è stata protetta dall’Italia dopo la sua annessione nel 1918. Dopo la Seconda Guerra Mondiale è diventata una no man’s land ed è stato proprio in quel periodo che si è diffusa questa mancanza di iniziativa. Tuttavia, si è prodotto anche un altro fenomeno. Finché la città continuava ad essere economicamente attiva, non rivestiva alcuna importanza sul piano culturale. All’improvviso, un’intera generazione di scrittori – Slataper, Saba, Svevo – ha avuto l’impressione che stesse spuntando una grande aurora. Il rosso che credevano di vedere, però, era quello del tramonto del sole e non del suo sorgere. Questa capacità letteraria è nata nell’istante in cui Trieste entrava nel suo periodo di decadenza. La letteratura è l’unico territorio in cui è possibile cercare la nostra identità nell’istante in cui ci sta sfuggendo. Slataper, l’inventore del paesaggio letterario triestino, è morto durante la Prima Guerra Mondiale. Era partito volontario per difendere l’italianità di Trieste. Il suo cognome era slavo – Slataper significa “penna d’oro” – ma egli si sentiva anche tedesco. Questa ricerca della propria identità è all’origine del ruolo svolto da Trieste in letteratura, con un rischio immediato: il rinchiudersi in questa tradizione. Io sono sfuggito a tale chiusura vivendo a Torino. Ho anche avuto la fortuna di diventare amico di scrittori come il poeta Biagio Marin o d’intellettuali che avevano combattuto durante la Prima Guerra Mondiale, studiato a Vienna o a Praga ai tempi di Kafka e scoperto la grandezza dell’Impero dopo aver contribuito a distruggerlo. La loro frequentazione mi ha aperto all’Europa e mi ha fornito una conoscenza concreta del loro mondo, come se fossi stato il compagno di classe di questa generazione mitica che aveva acquisito piena consapevolezza della distruzione in corso.
AA: È questo che vi ha indotto a dedicare la vostra tesi di laurea al Mito asburgico nella letteratura austriaca moderna?
CM: A Torino, ho letto anche i grandi austriaci: Musil, Roth, Kafka. Per imparare a conoscere me stesso avevo bisogno di approfondire questo passato austroungarico. Ho scoperto che l’Impero aveva lasciato una profonda nostalgia, quella dell’ordine e di una totalità epica. Ma era anche lo stesso mondo di cui gli scrittori hanno descritto il vuoto e la mancanza di valori. Questo contrasto mi ha fornito il soggetto per la mia tesi, senza che io sapessi dove mi avrebbe portato. Ho iniziato a scrivere a tentoni, e mi sono ritrovato di fronte a una specie di autobiografia indiretta.
AA: La sua forma annunciava già quella di Danubio?
CM: La differenza fondamentale non è tra il saggio o la finzione, ma tra libri che hanno uno scopo preciso e si occupano del soggetto annunciato nel titolo – come, ad esempio, le monografie che io dedico ad alcuni scrittori – e quelli il cui soggetto è una metafora. Qual è il soggetto di Danubio? Ancora non lo so. È un romanzo sommerso, una narrazione dove la realtà e la verità sono fondamentali. Tutto è vero e falso allo stesso tempo. Citando un poema di Byron, Mark Twain ha affermato: “Truth is stranger than fiction”, la verità è più bizzarra della finzione. Danubio è in effetti una sorta di mosaico. Ogni tessera corrisponde a un frammento di realtà. Con questi pezzetti, compongo un disegno del tutto immaginario.
AA: La soggettività deve scomparire se vuole essere salvata, avete dichiarato in Alfabeti, così come Omero ha cancellato il suo volto dal suo poema. Quale ruolo svolge la soggettività in Danubio?
CM: L’io narrante mi assomiglia molto, ma non sono veramente io, piuttosto si tratta della sensibilità di un soggetto. Gli presto molte delle mie manie, ma, alla fine, muore, mentre io sono ancora qua. Si trasforma in qualcosa d’altro, indispensabile affinché questa costruzione pervenga a una forma di generalità.
AA: Danubio è anche il racconto di un’erranza. Viaggiare è sempre molto importante per voi?
CM: È un altro aspetto della mia esistenza. Il viaggio non è solo uno spostamento. Il titolo della raccolta di articoli che ho pubblicato sotto questo nome è ironico (L’infinito viaggiare che in Francia è stato pubblicato nel 2003 con il titolo Déplacements – Spostamenti). Il viaggio non è quando ci si sposta con uno scopo preciso ma quando lo si fa per andare in giro, quando si è come una bottiglia adagiata su un fiume per essere osservata e vedere quale acqua la riempirà.
AA: Citate spesso le parole di Nietzsche: “Dove posso sentirmi a casa mia?”, eppure siete ben radicato a Trieste e a Torino…
CM: Certo, ma sempre con la sensazione di un’estrema precarietà, che non è in alcun modo in contrasto con il fatto di possedere le proprie radici. L’amicizia ha un ruolo molto forte. A Torino, non ho più alcun rapporto di lavoro: ci vado per passeggiare, andare in giro e ritrovare i miei amici, provare la sensazione di camminare insieme senza sapere verso dove. Lavoro come un matto, ma dedico molto tempo ed energie anche a fare cose senza uno scopo apparente. Viaggiare non significa gettarsi alle spalle l’intera esistenza. Percepisco una certa continuità della presenza, mi sembra che alcuni amici, che non sono più con noi, si siano chiusi lì, sul retro del bistrò. Questa fratellanza è molto preziosa nei momenti in cui lo scrittore e il viaggiatore si scoprono fragili di fronte alle loro zone d’ombra. In La mostra ho affrontato quello che, a volte, ognuno di noi scopre nel profondo di se stesso. Alcuni pensieri e atteggiamenti… come ad esempio quando si è sporchi, non ci si può lavare e ci si sente disgustosi.
AA: I luoghi dell’amicizia e dell’intimità per voi sono piuttosto luoghi esterni. Non parlate mai della casa.
CM: Amo molto la casa, e ciò che rappresenta: la continuità dell’amore nell’esistenza condivisa. Ma sento anche il bisogno di uscire e andare incontro agli altri. Non dimenticherò mai il primo contatto con Isaac Bashevis Singer, che in seguito ho incontrato e con il quale ho avuto un intenso rapporto epistolare. Quando ho scoperto i suoi racconti, gli ho scritto per esprimergli il mio entusiasmo e sono rimasto colpito dall’ultima frase della sua risposta: “Con tutto il mio affetto per voi, la vostra famiglia e i vostri amici”. L’affetto non si limita a un circolo ristretto. Abbraccia tutto. Anche il caffè e la brasserie sono casa mia.
AA: Avete citato La mostra, che appartiene a un tipo diverso di scrittura. Da dove nasce questa necessità di scrivere romanzi e anche testi teatrali come Alla cieca o Lei dunque capirà?
CM: Questa scrittura è necessaria per dimostrare come i problemi più generici si accaniscano su un’esistenza, mescolandosi agli aspetti più intimi di una vita. Essi sono come collegati alla persona, ai sentimenti, al corpo. Ecco perché amo il teatro: anche qui tutto passa attraverso la psiche. I racconti e le storie diventano espressione e sostanza della vita. Mi piace la tradizione chassidica: al suo interno raccontare storie riveste un valore religioso, anche quando si tratta di storie d’amore o di ubriaconi. Il racconto rafforza il legame tra le persone, rende tutto in carne e ossa. Quando rievoco i miei amici, ripenso alle storie che ci raccontiamo, in parte vere, in parte inventate. Sono nostre. Una storia che sentiamo può integrarsi perfettamente alla nostra vita, come se l’avessimo vissuta.
AA: Per voi, la forma di scrittura contemporanea che rende la realtà in carne e ossa è il romanzo?
CM: È la storia con la esse minuscola: il racconto, il romanzo. Non è più possibile scrivere romanzi tradizionali. La crisi del XX secolo ha indotto Kafka, Svevo, Proust, Musil e Faulkner a trasformare il romanzo. Victor Hugo poteva utilizzare lo stesso linguaggio per raccontare I miserabili e per scrivere contro “Napoléon le Petit”. Ora non è più possibile. Raffaele La Capria, che ora ha ottantanove anni ed è autore di un grande libro, Ferito a morte, definisce i grandi romanzi del XX secolo romanzi falliti perché hanno accettato l’impossibilità di capire il mondo, di avere una visione ordinata, e perché tengono conto di questo fallimento nella loro struttura e nel loro linguaggio. Avevo iniziato a scrivere Alla cieca come un romanzo lineare, ma non funzionava: non si può raccontare in modo ordinato e armonico una storia caotica e delirante. In questo romanzo ogni particella di verità è corretta dal suo contrario: quando si ha un’impressione di felicità, subito la malinconia si insinua, e non solo nel cuore, ma anche nella sintassi.
AA: Avete citato Victor Hugo e la sua scrittura politica. Quale posto occupa il giornalismo nella vostra vita?
CM: È un’attività che mi richiede molto. Scrivo per Il Corriere della sera da quarantaquattro anni. Rappresenta un impegno quotidiano. Certo, vi è molto più di me stesso in testi come Lei dunque capirà che esplorano in profondità il senso della vita. Il giornalismo mi permette di confrontarmi con l’esigenza di essere comprensibile senza fare troppe concessioni. Mi pone anche altre domande: come e quando intervenire per contribuire in modo efficace ad eliminare un’ingiustizia che mi manda in collera? Intrattengo un rapporto molto interessante con i lettori. Molti mi scrivono per ringraziarmi, complimentarsi, porre domande, contestare, approvare, insultare. Rispondo a tutti, è un lavoro molto impegnativo, ma questo dialogo con i lettori permette di scoprire e di capire molte cose. Alcuni mi scrivono dall’ospedale, dalla prigione. Il rapporto tra l’individuo e il mondo mi affascina. Non si tratta solo di lasciarsi governare dalla realtà… “Ho sempre considerato il mondo più geniale del mio genio”, diceva Goethe. La mia generazione attribuisce molto più potere ai giornali che alla televisione o a Internet. La trasmissione televisiva meno seguita ha un’audience molto più alta del numero di lettori di uno dei miei articoli. Ma la critica a un mio libro apparsa su un giornale di provincia mi colpisce molto di più di quello che sento in televisione.
AA: Quando realizzate una raccolta a partire dai vostri articoli, si tratta forse di un modo per ricostruire un’unità a partire da una serie di frammenti?
CM: La mia prima raccolta, pubblicata nel 1978, Dietro le parole, non aveva alcuna unità. La seconda, Itaca e oltre, era un libro vero e proprio. Mentre scrivevo per Il Corriere della sera gli articoli che la compongono stavo già scrivendo i capitoli di un libro. Lo stesso discorso vale per Utopia e disincanto.
AA: Gli articoli che compongono Alfabeti non sono disposti in ordine temporale.
CM: In effetti è come una sorta di biblioteca di Babele, ma sono tutti argomenti scelti da me e non articoli scritti su richiesta del Corriere della sera. Inoltre c’è un’unità: si tratta di una decodifica del mondo – mantenendomi ironicamente scettico sulla mia capacità di leggere, come il profeta Daniele, le parole scritte dal fuoco sul muro.
AA: La letteratura è quindi un alfabeto per leggere il mondo?
CM: È il mio, anche se non è il solo. Dopo aver letto Guerra e pace si ha una diversa comprensione del mondo. La letteratura ci permette di percepire la coesistenza di elementi contraddittori, le ambiguità dell’esistenza: a due pagine di distanza, può farci capire che la vita è piena di significato, e in seguito che è come un racconto da un’idiota narrato nel Macbeth. In Alfabeti si esprime un grande amore per le opere letterarie, ma anche molto scetticismo verso i loro autori. Condivido l’opinione di Milosz quando afferma: “I poeti hanno spesso il cuore freddo”. Se scrivono una poesia per un bambino che sta morendo, spesso manifestano maggiore interesse per i loro versi che per il bambino. Privilegio le opere che ci permettono di capire sia l’amore che il caos, l’ordine e l’orrore, ma anche l’incanto.
AA: In Alfabeti esplorate un universo letterario che rende conto della distruzione di un mondo, dell’impossibilità di trovare in esso il proprio posto e la propria identità. Decodificate il paesaggio dell’anima in questo universo “spettrale” dove “l’individuo si sente usato per scopi che […] gli sono sconosciuti”. Questo è specifico della Mitteleuropa?
CM: Gli autori più importanti di Alfabeti non sono necessariamente quelli della Mitteleuropa, anche se occupano un posto predominante e anche se il lungo capitolo centrale è dedicato a Praga. Sono le pagine su Sábato, Faulkner, Conrad o Kipling quelle che per me contano di più. Non ho alcuna nostalgia del passato. Il presente è difficile, ma il passato è stato peggio. Secondo Karl Valentin: “all’epoca il futuro era migliore”. Malgrado i numerosi aspetti contro i quali bisogna lottare, il presente è migliore del passato. La differenza sta nel fatto che non si ritiene più che il futuro lo sia. Svevo, uno degli scrittori più grandi e più difficili, ha affrontato l’abisso del nulla. Finge di parlare di cose futili e invece descrive l’impossibilità di vivere. Aveva capito che la tragedia non consiste nel non essere amati, ma nel non desiderare più la felicità. Nell’ultima pagina da lui scritta un vecchio scopre di essere disposto a vendere l’anima al diavolo, ma non in cambio della giovinezza, che è triste, non in cambio della vecchiaia, che è orribile, e nemmeno in cambio dell’immortalità, che è terribile. In realtà non ha più nulla da chiedere, e Mefistofele si ritrova come un rappresentante di commercio i cui prodotti sono passati di moda. L’anziano scoppia a ridere e questa risata è uno dei punti più alti della letteratura universale.
AA: Il filosofo Carlo Michelstaedter, autore de La persuasione e la rettorica (1910), morto suicida a ventitré anni nella città natale di Gorizia, sembra avervi segnato più di ogni altro.
CM: Prima di scoprire la sua opera, ero già sensibile al nostro modo distruttivo di vivere: aspettiamo sempre qualcosa, speriamo che il tempo passi il più in fretta possibile. Aspettiamo con impazienza la settimana prossima, il risultato delle elezioni, la risposta del medico. Viviamo per aver vissuto, per essere sempre un po’ più vicini alla morte. Il mio interesse per Michelstaedter si è rafforzato grazie a due circostanze. Dopo che avevo scritto un articolo su di lui, una donna, la cui voce lasciava intuire l’età avanzata, mi ha telefonato. Carlo Michelstaedter era stato compagno di scuola di suo fratello. Era un bell’uomo, affascinante, che sembrava essere nato per la felicità. La ragazzina che la signora era stata lo aveva sentito leggere la poesia Il canto delle crisalidi e gli aveva chiesto: “Cosa significa noi col filo col filo della vita nostra sorte filammo a questa morte?”. Lui si rifiutò di risponderle e persino di spiegarglielo quando sarebbe cresciuta perché lui non sarebbe più stato lì per farlo. In seguito, Biagio Marin mi parlò di uno degli amici di Michelstaedter che aveva voluto attuare la persuasione, questa condizione dell’essere descritta dal filosofo, che con essa si era distrutto. Ho scoperto così Enrico Mreule e il modo in cui la data della sua morte era stata anticipata di trent’anni, il che gli aveva permesso di vivere ignorato da tutti. Mi sono recato nella casa da cui Enrico non si è mosso dopo essere rientrato dall’Argentina dove, a cavallo, sorvegliava le greggi in Patagonia. Ho scritto Un altro mare, romanzo in cui compaiono Michelstaedter ed Enrico Mreule. L’amore per Michelstaedter è una passione familiare: mio figlio Paolo ha scritto una pièce su di lui, Come se fosse l’ultimo, e ha curato l’introduzione per l’edizione messicana di La persuasione e la rettorica.
AA: Si ha l’impressione che questa ricerca della persuasione, della vita al presente, sia, per voi, una preoccupazione costante.
CM: In effetti è la struttura portante di tutto ciò che scrivo, e anche della mia vita. A volte cedo alla sensazione di non esserne in grado, altre sento in me la persuasione in atto.
AA: Si ha anche l’impressione che cerchiate di raggiungere quello che Ibsen riteneva essere megalomania: “Vivere un’esistenza autentica e sviluppare pienamente la propria personalità”.
CM: È l’obiettivo della mia vita e, a volte, ho come la sensazione che, per un’intera parte della mia attività, io sia solo l’ottimo segretario di me stesso.