Tanatoprassi: il teatro di Dino Buzzati (IV)
Traduzione a cura di Annamaria Martinolli
Il presente saggio è tratto dai Cahiers Buzzati N. 1, Éditions Robert Laffont, Paris 1977, pagg. 85-133. L’autore è Yves Panafieu. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli. Si ringraziano le Éditions Robert Laffont per l’autorizzazione alla traduzione.
Trasmettere l’idea che le rappresentazioni della morte nel teatro di Buzzati siano costituite solo e unicamente da interpretazioni allegoriche con relativo corteo di fenomeni premonitori, atmosfere notturne ed espressioniste, simbologie geometriche e approcci aritmetici[1] sarebbe sbagliato poiché significherebbe recare torto a un’opera che può essere, a giusto titolo, considerata la più ricca, omogenea e conforme nel suo genere di tutte quelle selezionate per il presente studio. L’opera in questione è La colonna infame, basata sul testo che Alessandro Manzoni dedicò alla grande peste di Milano del 1631.
Nella succitata pièce, Buzzati affronta di petto l’umiliazione fisica e l’orrore nei loro aspetti più ripugnanti. Per descrivere le piaghe purulente e i bubboni, l’autore non compie alcun giro di parole ma dice le cose come stanno. Quando viene tratteggiata la maschera dell’appestato, sotto la quale alcuni credono si nasconda Lucherino impegnato in uno scherzo, le mezzetinte e le velature spariscono completamente:
“Era una maschera ma sembrava carne viva, la carne rosa e gialla delle piaghe col pus, viscida, coi bordi tutti screpolati, e dalle screpolature veniva giù la marcia e anche gli occhi erano marci, e il naso, e la bocca, la bocca era una caverna nera”.
(La colonna infame, Atto primo)
In altri passaggi, il personaggio di Giovanna, visibilmente impressionato, fornisce ulteriori varianti descrittive:
“Era tutta buchi. Una faccia smangiata dalla lebbra capisci? Una cosa ributtante”.
(La colonna infame, Atto primo)
Ed è sempre Giovanna ad evocare il naso sfoggiato dal sinistro passante:
“Un mostruoso naso a proboscide che gli pende dinanzi”.
(La colonna infame, Atto primo)
Risulta evidente che Buzzati prova ripugnanza proprio per l’orrore fisico e per la miseria della carne che determina il totale deperimento dell’essere e lo umilia. Se spesso l’illusione allegorica ha permesso all’autore di sfuggire agli incubi che l’idea delle realtà fisiologiche, nella loro naturalezza e sincerità, instillava in lui dopo che gli erano state rivelate dalla vita stessa e se gli ha permesso di arrivare a più alti significati, più spogli e mitici, essa, tuttavia, non ha annullato il substrato di informazioni sensoriali che costituivano il punto di partenza e, forse, in una certa misura, non ha cancellato neanche il trauma all’origine dei fantasmi. Ad ogni modo, il fatto che la tanatologia teatrale di Buzzati un giorno abbia deviato il suo percorso verso una malattia terribile come la peste è un fattore sintomatico. Infatti, il cancro era già incessantemente presente in Un caso clinico, anche se non veniva mai chiamato per nome, e la sua presenza aveva già messo in agitazione le forze dell’angoscia alimentate dalla fortissima tendenza dell’autore alla proiezione autodistruttiva che, nel giovane Dino Buzzati, si era manifestata già ai tempi dell’infanzia poco dopo la morte del padre, dopo lunghi anni di sofferenze, a causa di questa stessa terribile malattia.
La violenza delle percezioni psicosensoriali scatenate dalla malattia – quella degli altri o la propria – è inoltre alla base della descrizione effettuata nel quadro quinto di Un caso clinico dalla donna malata che si sofferma a ricordare le malefatte dell’etere un tempo utilizzato come anestetico. In questo passaggio, attraverso un transfert operato sui personaggi, si esprimono le impressioni dello stesso Buzzati quando, nel 1935, fu operato per una mastoidite. Per rendersene conto è sufficiente comparare le confidenze della donna malata in questione con le dichiarazioni rilasciate da Buzzati in proposito durante la serie di interviste realizzate nel 1971[2], che si potrebbero riassumere sotto il titolo L’incubo dell’imbuto:
Uomo Pallido E che cosa avrebbe allora di tremendo questo etere per parlarne tanto male?
Donna Malata Vorrei spiegarlo… ma non ci riuscirò mai… Il demonio c’è dentro, ecco.
Signore Grasso Nell’etere?
Donna Malata Mi dicevano respiri fondo più che può… io respiravo e a un tratto mi sono accorta che non potevo più muovere le mani, allora ho cercato di parlare ma anche la lingua non si muoveva più, e intanto sentivo il chirurgo e gli altri che parlavano e mi dicevo: io sento tutto e non posso più fiatare, questi qui mi potrebbero squartare e io non potrei neanche avvertirli… Non è piacevole… Ma questo, lo so, rientra nel previsto, questo è normale…
Uomo Pallido E allora? Non mi pare così spaventoso.
Donna Malata Poi non ho più sentito niente e mi sono trovata in un tunnel grigio… grigio… che si stringeva sempre più rotondo… un tubo grigio… (con forza) e una forza irresistibile mi trascinava dentro, sempre più dentro e il tubo si stringeva a imbuto, io soffocavo, e a questo punto un essere diabolico… […] diabolico, che io non vedevo, come uno spirito diffuso intorno… questo essere si è messo a parlarmi… gentile era, complimentoso, con un fondo però gelido e beffardo… Era il demonio!… Diceva: Ah tu credi che sia un’operazione? Brava, brava! Credi che tra mezz’ora ti risveglierai? Che idiota, ma non hai capito… non hai capito… non hai capito ancora che questa è la morte? E sogghignava senza far rumore, e io venivo sempre più trascinata dentro e non c’era più spazio, era l’annientamento, la riduzione a zero… cercavo di svincolarmi, di resistere… ma era una forza immensa, miliardi di tonnellate su di me e sempre quella voce che ridacchiava esultando per la mia disperazione… Oh, per quanto atroce, la morte non potrà essere più orrenda…
(Un caso clinico, Atto primo, quadro quinto)
La scena riporta quasi le stesse identiche parole pronunciate da Buzzati: le medesime impressioni, lo stesso trauma. Ecco dunque che l’orrore del deperimento fisiologico, presente ma in parte occultato dalla sistematizzazione allegorica e simbolica, palesato solo durante le poche confidenze rivelate in una sala d’attesa, s’impossessa interamente della scena alla pari degli appestati milanesi accatastati sui carri, a centinaia di migliaia, in un flusso di sangue e secrezioni purulente dove la carne morta si tinge dei colori dell’atrocità. Visto e considerato l’intervento di simili multipli delle singolari metamorfosi della morte, a cui il teatro di Buzzati fin qui analizzato ci ha già abituati, vale la pena fermarsi un istante per porsi alcune domande. Questi valori aritmetici costituiti dal giustapporsi e dall’accumularsi dei casi – ma, attraverso la situazione personale di Giovanni Corte in Un caso clinico, non vi è forse già una moltiplicazione dell’interpretazione allegorica impostaci dalla sola geometria dei luoghi? – hanno indubbiamente un significato specifico. Forse anche più d’uno, con buona probabilità. Limitiamoci, innanzitutto, ai fatti concreti, alla visione così realista della malattia e della sofferenza. Perché proprio la peste di Milano? Si tratta forse del ghiribizzo di un letterato che desidera rendere omaggio a un degno predecessore con uno di quegli atti di stupita venerazione di cui l’ambito letterario è prodigo? O si tratta forse di un’occasione, colta all’improvviso, nell’istante in cui il ricordo culturale riaffiora nella coscienza ormai privo di quella patina rimossa dalla brusca scoperta delle similitudini e dei significati paralleli? Con ogni probabilità la seconda ipotesi è quella giusta. No, non si tratta di una civetteria letteraria né di un atto obbligato mirante alla diffusione della cultura, è semplicemente l’irresistibile necessità di portare all’estremo limite di sviluppo un postulato già adottato da molto tempo, nonché un’ossessionante visione, la stessa, probabilmente, che induceva Buzzati a dormire con una lampada sempre accesa, la stessa che, al crepuscolo della sua esistenza, lo indusse a scrivere Le notti difficili. Con La colonna infame si arriva all’ultimo tempo del lungo crescendo costituito dall’evocazione della morte nel teatro di Buzzati. La scelta della peste non è casuale. Il fatto, poi, che Manzoni abbia fornito la circostanza di partenza, con le sue riflessioni e le sue opere, ha solo un’importanza secondaria; la peste, in quanto massimo simbolo di tutti i mali distruttivi con cui l’uomo è costretto a confrontarsi nell’arco della sua vita, si inscrive alla perfezione – e potremmo anche aggiungere “necessariamente” – nella logica dei fantasmi buzzatiani. Attraverso i sintomi che l’accompagnano, infatti, e per il suo significato di tragedia collettiva, essa finisce per ingigantire ancora di più gli effetti drammatici generati dalla presenza e dallo spettacolo della morte, aumentandone la portata fino ai limiti che l’autore stesso si impone.
Tanatoprassi: il teatro di Dino Buzzati (I)
Informazioni aggiuntive
Note: [1] Il dialogo tra Spiz e Angela Delorna (in Drammatica fine di un noto musicista) può essere reso con la formula matematica seguente: x – y + x – y + x – y + x – y + x, poiché ogni intervento di Spiz determina l’aggiunta di un numero x, sinonimo di pericolo, al quale viene immediatamente sottratto un numero y, di valore inferiore e sinonimo, in questo caso, di distensione. Per il gioco dell’accumulo delle eccedenze, il tutto sfocia in una somma di pericoli tale da determinare una condanna ineluttabile. [2] Mes déserts: entretiens avec Yves Panafieu, Éditions Robert Laffont, 1973, capitolo intitolato Le cauchemar, pp. 121-125.