Tanatoprassi: il teatro di Dino Buzzati (III)
Traduzione a cura di Annamaria Martinolli
Il presente saggio è tratto dai Cahiers Buzzati N. 1, Éditions Robert Laffont, Paris 1977, pagg. 85-133. L’autore è Yves Panafieu. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli. Si ringraziano le Éditions Robert Laffont per l’autorizzazione alla traduzione.
In precedenza, si è fatto riferimento al significato premonitore dello scherzo – che, come si è visto, non era tale – attribuito erroneamente a Lucherino ne La colonna infame. Questo tipo di significato è anche il corollario del ricorso all’allegoria raffigurante la morte, corollario al quale i romanzi e racconti di Buzzati ci avevano già abituati. In Drammatica fine di un noto musicista, ad esempio, l’arrivo di Rok sembra annunciato dagli incubi del giardiniere Giosuè. Il suono insistente delle campane, percepito con irritazione da Claudio Delorna, ha anch’esso un valore premonitore benché si sappia benissimo che tale rumore è la conseguenza di una decisione umana, dettata dalle circostanze (l’evacuazione degli abitanti). Il mistero che avvolge la strana entità di Rok, in effetti, tende a eludere il significato razionale delle campane che suonano a distesa e fa in modo che ad esso si sostituisca, all’opposto, un significato irrazionale perfettamente in linea con il fastidio confessato da Buzzati e dal personaggio di Claudio Delorna:
Claudio (con una certa inquietudine) Mi danno ai nervi mi danno, io odio le campane; non capisco come possano avere tanta celebrità poetica… le odio…
(Dino Buzzati ha ripetuto la stessa battuta, quasi parola per parola, parlando di se stesso nel corso dell’intervista Mes Deserts rilasciata nel 1971 a Yves Panafieu)
Tuttavia, è in Un caso clinico che il simbolismo premonitore, tramite la sua ricorrenza sistematica e monocorde, manifesta di più la sua presenza ossessiva; come una sorta di contrappunto riduttore attraverso il quale vengono subito annullate le affermazioni trionfalistiche di Giovanni Corte e le sue orgogliose soddisfazioni da uomo d’affari; tale simbolismo serve ad accompagnare le manovre verbali del Professor Claretta che costituiscono il meccanismo stesso della simbologia in quest’opera opprimente dove lo spazio è strutturato come un sistema distruttivo. L’allegoria equivale dunque alla scansione della voce del destino. Viene accolta ovunque, poiché si incolla ai talloni di colui che desidera ammaliare per meglio impadronirsi della sua persona e sfiancarlo. Per ben dieci volte, essa interviene all’interno della pièce sotto queste fattezze, contribuendo a darle quell’aspetto da incubo insostenibile. Il suo intervento è tale che, per noi, diventa impossibile comprendere se esso abbia uno scopo premonitore, o se il suo unico obiettivo sia suggerire l’idea di un’onnipresenza della morte, indipendentemente da qualsiasi concetto di premonizione.
Le atmosfere così create – com’è facile prevedere – devono molto a queste secrezioni dell’inconsueto che mirano a essere altrettanti simboli delle verità celate allo sguardo umano. Vi sono delle corrispondenze quasi inevitabili; la notte è spesso lo sfondo di queste rivelazioni inquietanti. Non bisogna stupirsi del fatto che Malvezzi, ne La colonna infame, dichiari a Croda, all’inizio della pièce: “La notte parla, caro il mio Enrico, a quelli che stanno a sentire. La notte sa molte cose che poi il giorno dimentica perché preferisce dimenticare. La notte scrive nel cuore degli uomini… molte cose che poi la luce del giorno cancellerà”. Ed è proprio di notte che Rok si manifesta al giardiniere e, in seguito, a Claudio e ad Angela Delorna in Drammatica fine di un noto musicista. Ed è sempre in un’atmosfera notturna, dove l’inconsueto eguaglia lo squallore di certe illustrazioni romantiche, che si svolgono le cerimonie iniziatiche degli “untori”, spargitori di morte per contratto e per disposizione psichica, nonché attraverso vere e proprie vie di fatto.
Altre corrispondenze, per ovvi motivi, scaturiscono da questi toni cupi: il richiamo sinistro di un uccello notturno, un cavernoso singhiozzo o ancora un lungo doloroso lamento accompagnato da un confuso mugolio sono tutte utili connotazioni espressive – anche se alquanto semplici e abusate. Così come quel “rumore ritmico e misterioso, cigolio triste, o battiti di macchina lontana, o vibrazioni di corde tese” che Buzzati suggerisce al regista in Piccola passeggiata; per l’autore, desideroso di sensibilizzarci allo scorrere del tempo, portatore di tutte le forze deleterie, queste connotazioni fungono da preziosi supporti: “Un rumore composto di tre o quattro colpi o note, ma sempre uguale, che significa angoscia, fuga del tempo, minaccia oscura”. A volte, a questi suoni vanno ad aggiungersi o sostituirsi “silenzio, voci lontane, il vento, il richiamo del cuculo, cani che abbaiano” (in Drammatica fine di un noto musicista), come a ricordarci che Buzzati rivendica un certo espressionismo, se non addirittura un certo romanticismo, e una classificazione letteraria che non lo iscrive nell’unico registro delle produzioni contemporanee. Se per caso dubitiamo di questo gusto del romantico giudicato da alcuni – ma non ci pronunceremo in questo senso – miseramente decadente, è sufficiente fare riferimento alla scena finale di Drammatica fine di un noto musicista. Certo, non vi è dubbio che l’allegoria della morte, in Buzzati, assume spesso corollari e connotazioni di questo tipo. Parentela naturale o scelta deliberata dell’autore, il fatto sussiste: le une e le altre coesistono.
A questa produzione di atmosfere che si adattano perfettamente alle allegorie della morte contribuiscono anche alcuni meccanismi narrativi, che traspaiono sotto la disposizione dei dialoghi. Il gusto delle progressioni, di cui i racconti, a volte, ci hanno fornito folgoranti rappresentazioni (tra le altre, si fa qui riferimento alle storie contenute nella raccolta I sette messaggeri), ricompare in alcuni testi teatrali, come ad esempio Un caso clinico:
Voci delle ombre Ehi! Ehi! Pss! (Una prima ombra fa segno di avvicinarsi a un’altra che compare subito, seguita in successione dalle altre)
Che c’è?
L’hai visto?
Chi? Chi?
Lui, no?
Perché? Sì, l’ho visto.
Sì, anch’io l’ho visto!
Anche lei?
Anche lei cosa?
Anche lei l’ha visto?
Sì, l’ho veduto anch’io.
Dite una cosa, avete notato che…?
Che cosa?
Eh, osservatelo, non è mica più come al solito!
Che cosa ha?
Non lo so, signora, vorrei bene saperlo. Certo è bizzarro.
Non sta bene?
Oh, io credo che stia bene!
Crede lei che stia bene? Ah, ah!
Perché questa risata? Lei sa forse…?
Ah ah, lei crede che stia bene?
E che cosa avrebbe, allora, secondo lei?
Sì, sì, ci dica, che cosa avrebbe…
Signori miei, si tratta di…
Di cosa? Di cosa?
Pare si tratti di melanomiasistinaffrstt. (La voce si ingarbuglia)
(Un caso clinico, Atto primo, quadro quarto)
Questo tipo di progressione implacabile, paragonabile a un incubo, può essere d’altronde modulata in vari modi. Capita, ad esempio, che la progressione avvenga con alti e bassi. Il caso più significativo è quello del dialogo tra Spiz e Angela in Drammatica fine di un noto musicista: la rievocazione di alcune voci che circolano avviene, all’inizio, in tono dubitativo; quando si arriva alla descrizione del primo sintomo d’inconfutabile pericolo, questo viene subito mitigato dall’affermazione di Spiz, che nega l’urgenza delle misure da prendere. Allo stesso tempo, tuttavia, compare anche l’evidenza della minaccia, quella di una catastrofe che non può in alcun modo essere evitata. La volontà di Spiz di ridurne l’importanza è anch’essa molto palese: dal suo punto di vista, solo il venti-venticinque percento della popolazione della regione ci andrebbe di mezzo. Poi, subito dopo, si torna a insistere sui motivi di preoccupazione: il verificarsi della frana non può essere messo in dubbio poiché un evento simile è già successo e alcuni documenti conservati negli archivi della parrocchia ne sono la prova. È proprio attraverso questi andirivieni, questo flusso e riflusso della minaccia, autentica doccia scozzese inflitta ai protagonisti che vengono a conoscenza della situazione attraverso il dialogo, che l’autore ottiene l’aumento dello stato d’angoscia. E quando, in un ultimo tentativo di distensione, Spiz fa riferimento all’automobile molto veloce di cui dispongono i coniugi Delorna per la fuga, è Angela stessa che, in un colpo solo, scarta questa ipotesi di salvezza – l’ultima – con la scusa che lo stato di salute del marito è troppo precario perché si possa pensare di informarlo del pericolo. Ancora una volta, la trappola scatta alla fine di una progressione che procede per brevi scossoni e va a colpire personaggi che, a poco a poco, sono diventati prigionieri – prigionieri del mondo che li circonda e anche di loro stessi. Da questo momento in poi, per completare l’opera distruttrice delle forze attraverso le quali la morte inocula il suo veleno, non resta che far intervenire, con la subitaneità dei gesti autoritari, gli aiutanti di campo investiti di pieni poteri. Nel teatro buzzatiano, infatti, come nei suoi romanzi e racconti, trova sempre posto quell’istante fatale che viene denominato momento preciso in cui si compie il destino. In Un caso clinico, ad esempio, entrano improvvisamente nella stanza di Giovanni Corte, tutto preso dal suo stato d’angoscia e ribellione e circuito dalle ipocrite giustificazioni del Professor Claretta, alcuni infermieri che portano una barella vuota, a indicare che il tempo dei cavilli, dei gemiti e delle suppliche è ormai finito. Tutto si riassume, si conclude e si annulla con un semplice gesto:
Corte Io… (In quel preciso istante bussano, chiedono “Permesso” e senza aspettare la risposta entra un capoinfermiere compitissimo seguito da due infermieri che portano una barella vuota)
Capoinfermiere Permesso? Permesso? Disturbiamo?
Corte Cosa c’è?
Capoinfermiere Siamo qui per… per quel piccolo trasloco…
Corte Come?… Non sono passati neanche cinque giorni… Già tornati quelli del terzo piano?
Capoinfermiere Come tornati?
Corte Dalla vacanza, no?… Ma vuol dire che hanno anticipato se io devo tornare su al terzo… dovevano stare via quindici giorni…
Capoinfermiere (un po’ imbarazzato) Ma… veramente, signore, non si tratta… non si tratta del terzo… noi siamo incaricati espressamente… siamo incaricati di…
Corte (balza a sedere sul letto) Dove? Dove?
Capoinfermiere Ma… veramente, signore… è al primo che dobbiamo…
(Un caso clinico, Atto secondo, quadro dodicesimo)